Caro Luciano,
non so se potrai leggere queste mie parole, in quel grande “forse” – ce grand peut être, come lo chiamava il Signor de Montaigne – in cui oggi ti trovi. Ma non posso fare a meno di scrivere, perché la notizia della tua scomparsa ha suscitato in me un’impressione profonda, diversa da quella in cui mi ha lasciato la memoria di altre persone venute meno non più nel fiore degli anni. Ci sono state morti che hanno ispirato in me rassegnazione, indifferenza, o magari una tiepida compassione. E ce ne sono state altre che hanno lasciato invece un sincero dolore. Ma la tua insieme al dolore ha suscitato in me un rimorso. Perché, nell’ambiente del giornalismo e degli intellettuali, sei stato una delle rare persone non solo corrette, ma generose, fiduciose nel prossimo sino alla temerarietà, disponibili anche oltre la prodigalità. E oggi provo il rimpianto di non aver saputo corrispondere da amico a queste tue doti.
Non abitavamo vicini, è vero, tu a Milano, io a Firenze, solo le vacanze estive ci avvicinavano, quando tu facevi una puntata nella natia Genova, io trascorrevo qualche settimana nel Tigullio, e in più non appartenevamo alla stessa generazione. Ma nell’era di internet e dei cellulari certe distanze volendo si superano, senza l’assillo della teleselezione e dei rintocchi di gettoni telefonici in una cabina faticosamente contesa; e poi, col trascorrere degli anni, anche diciassette primavere non sono una distanza incolmabile e, pure quando potevano pesare di più, non hai mai fatto nulla per farle avvertire. Anzi, l’immagine che conserverò di te è quella di un uomo sorridente, orgoglioso del suo fisico tonico (ricordo ancora il tuo rammarico perché un brutto male che ti aveva colto una ventina di anni fa ti aveva distratto dalla ginnastica quotidiana), felice a tratti di scherzare come un bambino, di farti fotografare davanti al monumento a Fido – il cane fedele – a Torre del Lago Puccini o con un copricapo poco politicamente corretto nella terrazza dell’amico Piero Zanella.
Eppure la vita non sempre era stata generosa con te. Come mi confidasti una volta, tuo padre era stato un centurione della Milizia, che, rimasto disoccupato dopo la guerra, era stato reintegrato nella Pubblica Sicurezza, ma come semplice maresciallo. Chi ha portato le stellette sa bene quanto quella degradazione fosse demoralizzante in un’epoca in cui la distanza fra sottufficiali e signori ufficiali era molto più netta di oggi. Ma tuo padre aveva dovuto accettare quella umiliazione tipica di Scelba, che utilizzava gli ex fascisti in funzione anticomunista, ma in posizione subalterna: doveva mantenere la famiglia. E vi riuscì egregiamente, facendoti studiare nelle scuole cattoliche sino alla licenza liceale. Fosti “basco verde” dell’Azione Cattolica di Pella e poi all’università nella Fuci; ma la laurea non la prendesti perché a ventun anni eri già redattore del “Corriere Mercantile”, storico contraltare del “Secolo XIX” nella Superba, diretto da Angelo Magliano, un valoroso ex partigiano liberale amico di Edgardo Sogno, che divenne poi amico anche tuo.
Entravi giovanissimo, forte della tua preparazione, della tua disponibilità, della tua curiosità in quello che all’epoca era un circolo esclusivo. Come mi raccontasti una volta, col primo stipendio ti saresti quasi potuto comprare un’utilitaria, e il tesserino di giornalista professionista garantiva l’ingresso libero ai cinema, perché il mestiere non era inflazionato, la stampa era davvero un quarto potere, le notizie si cercavano con i piedi e con la testa, non davanti a una tastiera. E poi gli scoop erano scoop. E tu ne facevi tanti.
Uno per tutti, che rievocasti fra l’altro nel tuo contributo al prezioso volume di Jacopo Cellai Genova cinquant’anni dopo (Sassoscritto, Firenze 2010), riguardò i violenti disordini che nel 1960 impedirono lo svolgimento del congresso nazionale del Movimento sociale nel capoluogo ligure, ponendo le premesse per la caduta del governo Tambroni. Tu non eri un “missino”, ma nella tua adolescenza avevi militato nel movimento giovanile monarchico che insieme alla Giovane Italia aveva organizzato anche a Genova grandi manifestazioni contro l’invasione sovietica dell’Ungheria. Questo ti consentì, unico cronista autorizzato, di essere presente nell’Hotel Bristol, dove alloggiavano i dirigenti del Msi “assediati” dai manifestanti. In più grazie alle tue attente relazioni avevi scoperto l’assurda logica che rese possibile il successo di un’insurrezione popolare finalizzata a ribaltare gli scenari politici italiani. Come mi raccontasti molto prima di pubblicare quel contributo, avevi scoperto che il ministro dell’Interno del governo Tambroni aveva deciso che le forze dell’ordine che presidiavano il centro di Genova portassero sì le armi, ma sprovviste di munizioni. La Ps accettò la scelta, che la metteva alla mercè dei manifestanti, i Carabinieri si rifiutarono. Qualcuno – tu eri convinto che fossero esponenti della sinistra dc – informò Togliatti e i portuali genovesi assalirono con i loro ganci i celerini del battaglione mobile di Padova, all’epoca il più “cazzuto” negli scontri di piazza, sfigurando a vita il volto di molti di loro con gli uncini; si guardarono bene dall’assalire i militi dell’Arma, che avevano il colpo in canna. Credo sia stato un trauma, per te come per molte altre persone che avevano il senso dello Stato, vedere un governo cadere per una rivolta di piazza, un trauma superiore alla soddisfazione per lo scoop. Ma credo che potesti superarlo presto. Nell’Italia di allora c’era spazio per un cronista d’assalto coraggioso e anche colto, e per te arrivarono gli anni migliori, alla “Notte” di Nino Nutrizio, al “Giornale” di Montanelli e soprattutto a “Gente”, storico settimanale della Rusconi, di cui fosti inviato e caporedattore.
Era l’epoca in cui i rotocalchi, che oggi stentano a tenere in pari il bilancio, entravano in tutte le case, con le loro diverse sfumature. C’era il patinato e moderato “Epoca”, con i grandi servizi illustrati, i reportage alpinistici di Walter Bonatti, i saputi commenti di politica estera di Augusto Guerriero, che si firmava con lo stesso pseudonimo di Ricciardetto con cui aveva firmato nel Ventennio. C’era “Oggi”, settimanale repubblicano che vivevagrazie alle regine, come celiavano in molti. C’era la “Domenica del Corriere”, con Walter Molino che aveva preso il posto di Beltrame come illustratore della copertina. C’erano le riviste dichiaratamente di destra, dallo “Specchio” di Nelson Page al “Borghese”, dal “Conciliatore” al “Candido” di Guareschi poi rilevato da Pisanò. Ma soprattutto c’era “Gente”, settimanale per famiglie, ricco anch’esso di gossip sulla famiglia reale ma con ottime pagine culturali dirette da un fine scrittore come Piero Capello.
Tu rimanevi un cronista d’assalto, e nel 1968 fosti il primo giornalista italiano a entrare nella Cecoslovacchia occupata dai russi; negli anni Settanta giravi con una Smith & Wesson regolarmente denunciata e ti allenavi al tiro a segno di Genova perché eri un potenziale obiettivo delle Brigate Rosse, come lo fu il giudice Sossi, tuo amico dagli anni del liceo. Ma i tempi diversi del lavoro in un settimanale, affrancato dall’assillo della cronaca, ti consentirono di dedicarti alla tua seconda passione: la ricerca storica. Giornalismo d’inchiesta e storiografia si fondevano nei tuoi saggi che, fondati sempre su un’appassionata ricerca delle fonti, si prestarono a prestigiose riduzioni in sceneggiati televisivi. Il tuo primo grande scoop storiografico fu una serie di interviste ai superstiti protagonisti della congiura del 20 luglio 1944, che avrebbe potuto cambiare la storia ponendo le premesse per una pace separata fra una Germania denazificata e gli Alleati. Uscirono nel 1964, a vent’anni dall’attentato, e le loro testimonianze riedite sono alla base di uno dei tuoi ultimi volumi, Operazione Walkiria, pubblicato nel 2008 con le edizioni di Ares, un libro nato, come scrivesti in epigrafe, “per rendere omaggio ai figli migliori della Germania e padri nobili della futura Europa, ma anche per ricordare come americani, inglesi e russi, per incapacità, ferocia o cinismo impedirono alla Resistenza tedesca di accorciare di un anno la seconda guerra mondiale, evitando almeno 10 milioni di morti”.
Contrariamente a quello che è stato detto spesso su di te, infatti, tu non eri affatto un “fascista”, termine con cui nell’Italia degli anni di piombo (e spesso, purtroppo, anche in quella di oggi) si tende a liquidare gli anticomunisti. Eri un liberale monarchico, di sentimenti cattolici, decisamente contrario al nazismo e al comunismo, posizione non facile da tenere negli anni di piombo. Non a caso molti dei tuoi reportages, tradotti poi in volume, sono dedicati a partigiani di estrazione liberale, vittime in certi casi dell’odio dei “garibaldini”, ma anche a vittime della violenza politica, dal giudice Sossi al commissario Calabresi.
La tua ansia di verità, la tua ricerca del documento umano andavano comunque oltre gli ideologismi. Attento raccoglitore di testimonianze, pubblicasti il memoriale di Piera Gatteschi, comandante delle Ausiliarie della Repubblica Sociale, ma anche La guerra (non) è perduta (Ares), in cui raccogliesti i ricordi degli ufficiali italiani che dopo l’8 settembre avevano scelto di combattere nell’Ottava Armata britannica. Il tuo libro forse migliore da un punto di vista storiografico fu Mussolini e il professore (Mursia) esauriente e tuttora insuperata biografia del ministro dell’Educazione nazionale Carlo Alberto Biggini, che anche Luciano Canfora, nel suo Il sovversivo, biografia di Concetto Marchesi, cita senza prevenzioni. I tuoi scritti più noti sono invece quelli che riguardano la cosiddetta pista inglese, sull’uccisione di Mussolini. Ti confesso di averli seguiti con minore interesse, non perché dubiti della serietà delle tue ricerche, ma perché a mio giudizio il presunto carteggio fra il duce e Churchill anche se rivelato non avrebbe avuto un effetto dirompente. La sorte di Mussolini era ormai segnata, chiunque fosse stato il mandante o l’esecutore materiale della sua esecuzione, con buona pace dei cultori di “dongologia”.
Apprezzai di più il volume Mio marito il commissario Calabresi, edito nel 1990 dalle Paoline, in cui raccogliesti i ricordi della vedovaGemma Capra. Anzi, fu proprio attraverso la presentazione di quel libro che ebbe inizio la nostra amicizia. In un primo tempo mi ero accostato al tuo scritto, che presentammo a Firenze, con un certo scetticismo, perché – garantista come sono – nutrivo qualche perplessità sulle rivelazioni del pentito Marino, sospettando che potessero essere state comprate per incastrare gli assassini del commissario. Ma quando andammo insieme a trovare il “grande accusatore” di Adriano Sofri e compagni che a Bocca di Magra, in un’umida e fredda serata d’inverno, friggeva le sue crêpe in una modesta baracchina, capii che la sua confessione non l’aveva di certo reso ricco ed era stata motivatasul serio da un’intima esigenza di verità. Non solo perché non si diventa “infami” per così poco, ma perché lessi nel suo sguardo un sentimento sincero, degno di un personaggio di Dostoevskij, per quello che avevate fatto
Insieme all’attività di ricercatore e divulgatore storico procedeva intanto la tua carriera giornalistica, purtroppo, come mi raccontasti in uno dei nostri primi incontri, inceppata da uno dei tanti gesti di generosità da cui è stata costellata la tua esistenza. Correva l’anno 1983 ed era stato da poco arrestato con un’accusa assurda Enzo Tortora, di cui eri amico sin dalla giovinezza e con cui avevi condiviso il lungo viaggio attraverso gli anni di piombo. Pochi ricordano infatti che il futuro conduttore di “Portobello”, caduto in disgrazia presso la Rai, si era riconvertito come giornalistadei quotidiani del gruppo Monti e aveva seguito come inviato della “Nazione” e del “Resto del Carlino” la tragedia del commissario Calabresi, rischiando il linciaggio da parte dell’ultrasinistra.
Quando Tortora fu arrestato e l’immagine di lui ammanettato fu data in pasto alla stampa e alle televisioni, ti schierasti, insieme a pochi altri giornalisti, dalla parte dell’amico, vittima dell’assurda legislazione sui pentiti, in base a cui la parola di un pluricondannato può valere più di quella di un galantuomo. Se il partito liberale, in cui Tortora si riconosceva e per cui votò anche quando era detenuto nel carcere di Regina Coeli, avesse avuto il tuo stesso coraggio, forse una causa nobile come il contrasto all’arbitrio giudiziario non sarebbe stata regalata al partito radicale, che com’è noto lo candidò al Parlamento europeo, dopo Toni Negri e prima di… Cicciolina.
Purtroppo, però, la fedeltà all’amico, ma anche alla causa del garantismo contro ogni giacobinismo giudiziario, ti costò il posto a “Gente”, nel pieno della tua carriera giornalistica. Ripiegasti alla fine su un incarico gratificante sotto il profilo economico e che, oltre a collimare con la tua passione per i motori, ti lasciava più tempo per le collaborazioni e la ricerca storica: un posto di assistente al direttore di “Quattroruote”.
La caduta della prima repubblica e la nascita di Alleanza Nazionale suscitarono in te, come in molti di noi, grandi speranze, in buona parte deluse. Scorgesti nel nuovo partito la grande occasione per la nascita di una destra affrancata dall’ipoteca neofascista e iniziasti una collaborazione al “Secolo d’Italia” con la rubrica “Fuorisacco”, un “taglio basso” in prima pagina in cui commentavi causticamente eventi politici o fatti di costume. La scelta ti guadagnò la stima dei lettori, che erano molti e attenti, perché sotto la felice direzione di Gennaro Malgieri il quotidiano viveva una seconda giovinezza. Ma ti recò alcuni problemi che hanno dell’assurdo. Una volta, dovevano essere gli anni dell’Ulivo di Prodi, alcuni politici di destra avevano invitato i simpatizzanti a non devolvere l’otto per mille alla Chiesa cattolica, in quanto troppo schierata col centrosinistra. Tu in un “Fuorisacco” criticasti la proposta, sostenendo che bisognava distinguere fra la Chiesa come istituzione e le intemperanze di alcuni chierici politicanti. Di punto in bianco fu soppressa la tua collaborazione alle pagine culturali dell’“Avvenire”. Il giornale dei vescovi italiani non poteva accettare che un suo collaboratore scrivesse sul “Secolo”, nemmeno per difendere l’obolo di cui viveva. Un’altra volta pubblicasti un commento al vetriolo su alcune dichiarazioni dell’avvocato Agnelli, che aveva trattato con disprezzo Berlusconi, snobbato come un parvenu. L’editoriale Domus non era proprietà della Fiat, ma pochi giorni dopo la pubblicazione ti vedesti retrocesso dal tuo ufficio personale all’open space. Naturalmente, non ottenesti nessun risarcimento da una destra tanto pronta, allora come oggi, a lamentarsi dell’egemonia culturale della sinistra quanto poco interessata a valorizzare i propri uomini di cultura: le collaborazioni con la Rai che ottenesti furono dovute solo ai tuoi meriti. Dopo il pensionamento, i tuoi libri continuasti a pubblicarli con Mursia o con storici editori cattolici come Solfanelli e soprattutto le edizioni di Ares, dirette da quel grande intellettuale e manager editoriale che è stato Cesare Cavalleri.
Purtroppo, i nostri incontri non erano frequenti, ma sempre sereni. C’incontravamo in occasione di presentazioni dei tuoi libri, nel corso di dibattiti (una volta anche a una festa Tricolore a Firenze, dove uno sfuggente “colonnello” di Fini mi dette l’impressione di snobbarti), nella tua casa milanese, dove ti trovavi convalescente di un brutto male superato con una non comune forza di volontà, in Liguria o in Versilia, anzi alla Versiliana, dove nel luglio del 2008 partecipasti a un dibattito sulle Ausiliarie della Rsi condotto da me e Romano Battaglia, al quale ti avevo indicatol. In ogni occasione mi colpiva il tuo sorriso, che non veniva mai meno, nemmeno quando mi confidavi le tue amarezze, che in gran parte erano anche le mie, perché a prevalere su tutto erano il tuo attaccamento alla vita, la tua dedizione alle amicizie, la tua fedeltà alla prima e anche alla terza pagina.
L’ultimo ricordo che ho di te non è legato a un incontro fisico, né a una lettera, ma, triste segno dei tempi, a una mail che mi inviasti il 19 marzo 2020, alle 21,41, per ringraziarmi di una piccola citazione in un articolo che avevo pubblicato proprio su questo sito.
“Caro Enrico, grazie per avermi ricordato nel tuo articolo su Il Barbadillo. E’ stato , per me, un piccolo ritorno indietro negli anni. Cosa di cui ho più che mai bisogno, dato che la vecchiaia (i prossimi sono 85) si fa sentire!”
Auspicavi che ci saremmo potuti vedere, quando, come lo chiamavi tu, il “carognavirus” avesse smesso di imperversare. Non fu così, ci limitammo a sentirci per telefono e ne provo ancora rimorso, perché, se una breve citazione era per te motivo di gioia, immagino che cosa avrebbe significato un breve incontro, uno scambio di ricordi e di opinioni, per alleviare la deserta solitudine della vecchiaia. Ma forse questa mia disattenzione qualcosa di buono l’ha avuto, permettendomi di ricordarti com’eri, con il tuo sorriso che affiorava sempre, anche quando sembravi risentito col mondo: il sorriso ingenuo di un vecchio cronista d’assalto dolcemente indifeso dinanzi alla vita, anche quando sotto la giacca era costretto a tenere una Smith and Wesson.
Bravo Nistri,di galantuomini come Luciano Garibaldi ce ne sono stati pochi nel ” nostro ” ambiente .
Ottimo ricordo. Complimenti.
Magari Azione Cattolica di Gedda, più che di Pella…
è vero: touché. Però anche Pella mi rimane simpatico: per Trieste italiana mobilitò le divisioni