Suggestivo bianco e nero per l’amour fou unilaterale e coloniale nel 1918 di Grand Tour del portoghese Miguel Gomes, premiato per la regia all’ultimo Festival di Cannes.
In una parte di mondo dove la Grande guerra non è passata, l’Asia sudorientale, una inglese cerca il fidanzato altrettanto inglese, ma non altrettanto innamorato, anzi. Appena sa che lei arriva, lui lascia città e Paese dove sosta: Birmania, Malesia, Indonesia, Vietnam… Si presume che lui sia un funzionario dell’Impero britannico, di cui certo non ha garantito la sopravvivenza; di lei si sa che, oltre che tenace, è tisica.
Il soggetto è del regista, che si è ispirato a un racconto di Somerset Maugham, autore cui il cinema si rivolge volentieri da un secolo. E’ tipico di Maugham raccontare storie di infelicità, il che dà ai film quella patina di consapevolezza inglese che il mondo, anche quello coloniale, è un posto dove sarebbe meglio non essere.
Per chi vede la vita in altro modo, sono possibili altri confronti: l’amour fou femminile e itinerante per il mondo evoca quello di Adéle H. di François Truffaut (1975): il destino breve di una giovane donna evoca Love Story di Arhtur Hiller (1970).
Girato al risparmio, il film di Gomes affianca riprese documentaristiche odierne a scene di recitazione in teatro di posa (italiano: il film è una coproduzione).
Se vi chiedete se valga la pena di vedere Grand Tour, la vale se amate gli sfondi asiatici e se siete ben riposati.
Grand Tour di Miguel Gomes, con Gonçalo Waddington, Crista Alfaiate, 129′