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Leonessa non è un paese come gli altri. Lo avverti dalla potenza del luogo, alle pendici di grandi montagne, sotto il Tilia e il Terminillo, nel cuore degli Appennini. Lo senti dal nome, dalla sua forza e dalle pietre delle tante chiese, dei palazzi, dei portici nella piazza che ha un fascino alpino. Oggi ha poco più di duemila abitanti e solo dal 1927 fa parte del Lazio, mentre prima era Abruzzo, e anche adesso, in effetti, sembra più Abruzzo che Lazio. A pochi chilometri corre un confine che non c’è più, quello tra il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio: è un confine scomparso dal 1861, ma qui ci tengono a ricordarlo e hanno messo un bel cartello sulla strada regionale. Naturalmente Leonessa era nel regno di Napoli e come L’Aquila ha una storia speciale, perché nacque nel ‘200 dall’unione di diversi castelli, tra cui quello di Narnate, toponimo che la lega inequivocabilmente al bacino del fiume Nera, che scorre poco più in là, oltre Monteleone, Cascia e Norcia, tra Marche e Umbria, tra i Sibillini e il Tevere.
Leonessa non dimentica, non vuol dimenticare che cosa è e che cosa è stata, e non vuol perdere la sua anima. Un pezzo importante di quest’anima sta nel bel convento di San Francesco che ospita il museo civico demo-antropologico “Mauro Zelli”, diretto da una persona altrettanto speciale, proprio come il paese di Leonessa. Il direttore del museo è Mario Polia, storico, antropologo, etnografo, e archeologo, specialista in antropologia religiosa e storia delle religioni. Polia dagli anni Settanta del secolo scorso, si è dedicato alla ricerca archeologica e antropologica nelle Ande peruviane, fino ad arrivare ad importanti scoperte documentate in numerose pubblicazioni. Ma la sua lunga attività e il suo straordinario interesse per le culture di tutto il mondo, lo hanno portato ad indagare la mitologia norrena come la poesia giapponese e a confrontare le tradizioni di territori lontanissimi. Polia fu anche il primo in Italia a scrivere di Tolkien e proprio a Tolkien ha dedicato il suo ultimo libro dal titolo “Mitologia Tolkieniana”(CinabroEdizioni). In Italia ha messo insieme un amplissimo lavoro d’indagine antropologica sulle culture rurali dell’Appennino centrale, dal territorio di Leonessa a quello dei Sibillini, dalla Valnerina al Piceno.
In una nevosa mattinata di dicembre Mario Polia è nel suo museo di Leonessa, dove riceve un gruppo di ragazzi e ragazze dell’associazione Aurora, saliti fin quassù (Leonessa è a quasi mille metri d’altitudine) per aiutarlo a rimettere in ordine i locali dove sono ospitate le esposizioni e soprattutto per sostenere l’importanza di questo museo che meriterebbe maggiori attenzioni da parte delle amministrazioni locali, per la sua importanza e per l’impegno di chi lo ha creato.
Questa è anche l’occasione per incontrare il professor Polia e per capire cosa significhi un museo del genere per un territorio che oggi molti considerano marginale, ma che custodisce invece una cultura millenaria.
Mario Polia per studio e per ricerca lei ha viaggiato in mezzo mondo ma poi ha deciso di vivere a Leonessa, perché?
“Conoscevo Leonessa, perché conosco bene tutte le montagne qui intorno e questo è stato sempre per me un luogo di grande interesse dal punto di vista dello spirito. In effetti è un luogo che risponde a tante mie esigenze: la pace, la tranquillità, la natura, i ritmi di vita. Così dal 1982 mi sono trasferito qui a Leonessa, come conseguenza di una logica scelta. Venivo dal Perù, dopo tantissimi anni di lavoro e di ricerca sulle Ande e questo era il posto più congeniale dove stabilirmi. Qui ho un buon rapporto con la popolazione, un ottimo rapporto con la natura e riesco a vivere una vita secondo i ritmi naturali. Ho riadattato una vecchia stalla che ho rimesso a posto con le mie mani; poi con un gruppo di amici abbiamo fatto le rifiniture”.
Perché anche qui, come in Perù, ha sentito il bisogno di occuparsi delle tradizioni popolari?
“Perché non riesco a stare in un posto senza cercare di capire l’anima del luogo. Così anche qui ho cercato l’anima di questo luogo come in Perù, dove l’ho fatto per tantissimi anni”.
C’è una differenza tra l’anima di questi luoghi d’Appennino e quelli che le sono più cari sulle Ande in Sud America? C’è qualcosa che li unisce?
“La cosa che li unisce, se si ha la sensibilità, è la possibilità che questi luoghi offrono di vedere, al di là della natura, la realtà spirituale che vi si cela. Il primo libro scritto da Dio è stato quello della natura, poi siccome l’uomo non capiva, Dio ha fatto scrivere altri libri. Ma il primo libro nel quale è veramente scritto tutto è la natura. I cieli narrano l’amore di Dio, il mondo manifesta le sue opere in una sorta di liturgia che s’inserisce nel ciclo liturgico dell’anno, ma che si basa sulle stagioni, sul vissuto, sulle trasformazioni della natura”.
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Perché il museo? A cosa serve?
“Il museo demo antropologico di Leonessa serve a testimoniare un tipo di civiltà che c’era qui e in tante altre zone d’Italia e che è stata demolita nella seconda metà del Novecento. In quel periodo si è verificata in effetti una demolizione del mondo rurale che è stata soprattutto una demolizione spirituale. Qui sono conservate le testimonianze di una vita operosa, vissuta a stretto contatto con il sacro e con le tradizioni dei Padri. Questo poi è un museo speciale: la cosa particolare è che non è stato comprato neanche un pezzo. La gente si è interessata, ha partecipato e adesso è un continuo di persone che portano i loro oggetti e ce li donano. A volte anche cose importanti, di grande valore: ce le affidano perché sanno che qui noi conserviamo la memoria delle loro tradizioni, la memoria dei loro padri, delle loro famiglie. Inoltre questo non è solo un museo di oggetti, ma fa anche ricerca. Al patrimonio immateriale delle tradizioni di questa terra abbiamo dedicato diversi libri e articoli, proprio per aiutare i visitatori del museo a capire, a percepire anche loro l’anima del luogo”.
La civiltà rurale che possiamo provare a conoscere e a riconoscere in questo museo nella sua storia, nelle sue tante storie, e nelle sue caratteristiche, può servire ancora a qualcosa nel mondo di oggi e in generale per il nostro futuro?
“La civiltà rurale, purtroppo, è un albero al quale hanno tagliato le radici. Ricordare e studiare i suoi valori e i suoi modi di vivere ha oggi lo stesso significato che studiare quelli dei popoli antichi, degli Etruschi, degli Umbri, dei Romani. Sono sempre uomini e donne che hanno lasciato un segno nella storia della nostra patria. Ma alcuni valori di quel mondo possono ancora essere trasportati nel nostro. Ad esempio il valore della solidarietà che abbiamo perduto. La civiltà rurale si caratterizzava come un mondo solidale, nella sofferenza, nel lavoro, nella gioia. E poi c’era il senso innato della frugalità: gioire dei prodotti del lavoro, della natura. Infine vi era la sensazione che il sacro fosse presente anche nelle piccole cose”.
A proposito di senso del sacro, il museo è dentro un convento…
“Sì, siamo in un bellissimo convento francescano dell’Ordine dei Minori, costruito nel Duecento e chiuso dalle truppe napoleoniche nel 1809. Un luogo dove c’è ancora una parvenza di senso del sacro anche attraverso gli oggetti conservati nel museo. Oggetti che non sono solo oggetti, ma dietro ai quali c’è un vissuto. E allora qui trovi i santi protettori delle attività artigianali, trovi il sacro vissuto nella quotidianità. Ad esempio c’è una conca dove se la mattina al risveglio trovavano il mestolo affondato nell’acqua, pensavano che i morti avessero bisogno di preghiere. Ogni oggetto ha un suo mondo dietro. E spesso testimonia quanto il sacro fosse fondamentale nella civiltà rurale: prima di ogni azione venivano fatte delle preghiere, prima di accendere il fuoco per cucinare, per fare la calce o il carbone venivano fatte delle preghiere. Queste preghiere, questi modi d’intendere il sacro nella quotidianità sono tutti conservati in questo museo, non vengono solo conservati ed esposti gli attrezzi, ma tutto quel mondo immateriale che ci sta dietro. Abbiamo lavorato per un salvataggio integrale della cultura del mondo rurale”.
Il mondo rurale del quale viene conservata la memoria in questo museo era un mondo cristiano pur essendo l’erede di tante e diverse culture che si erano rapportate con il sacro. Anche lei, dopo aver studiato e conosciuto tante culture e tanti modi d’intendere il sacro, ha scelto di essere cristiano, perché?
“Il mio non è un cristianesimo di facciata, è un cristianesimo sofferto, studiato, approfondito. Risponde in pieno alle mie esigenze interiori ed è una religione nella quale, se si sa vedere, c’è una continuatio dei valori del mondo che ci ha preceduto. E’ chiaro che il cristianesimo, come ogni cosa affidata da Dio alle mani dell’uomo con il tempo si corrompe, ma dietro questa apparente o effettiva corruzione c’è sempre una promessa importante alla quale io faccio riferimento e insegno a fare riferimento: che c’è un patto firmato con il sangue di Dio che dice che le porte dell’inferno non prevarranno. Questa è la cosa più importante in un’epoca di decadenza come quella nella quale stiamo vivendo, dove parecchi valori cristiani sono stati corrotti, ma la profondità di questa religione mi soddisfa in pieno ed è una profondità che viene da lontano, che ha radici profonde, che rimette insieme tanti pensieri e dove ritrovo il valore vero di quel termine katholikós , universale”.
Visitare il museo demo antropologico di Leonessa è un viaggio straordinario nell’anima della civiltà che ci ha preceduto, la civiltà rurale. Un viaggio da compiere anche all’interno di noi stessi per riscoprire una parte della nostra anima, con una guida d’eccezione, il professor Mario Polia.
Il museo è aperto venerdì, sabato e domenica dalle 9:00 alle 13:00.
Dal 1° agosto al 15 settembre: tutti i giorni dalle ore 9:00 alle ore 13:00 (compresi festivi).
Indirizzo: Via di San Francesco, 81, 02016 Leonessa (RI)
Tel. 0746923212
Vero, il Cristianesimo viene da lontano, troppo lontano, per i miei gusti. Indubbia una certa continuatio rispetto ai valori dell’era precedente ma c’è stato anche un Teodosio, con le sue persecuzioni e stragi di gentili. Meglio ricordarlo, sempre.
La civiltà rurale purtroppo coincideva con diffusa povertà ed ignoranza. Il vero sacro vi allignava poco…