Curzio Malaparte nasce il 9 giugno 1898 a Prato. Si vanta di essere toscano, anche nell’epitaffio della tomba, ma quando gli garba sfoggia la sua parte tedesca, all’anagrafe è Curt Erich Suckert. A quindici anni è il segretario della sezione giovanile del partito repubblicano. A sedici scappa e si arruola nella Legione Straniera. Fa il soldato di seconda classe nelle Argonne agli ordini di Peppino Garibaldi. Scoppia la Grande Guerra e lui a diciassette si arruola nel Regio Esercito, arriverà al grado di Capitano. Ha annusato i gas e per tutta la vita i suoi polmoni risentono dell’intossicazione da iprite. Malaparte è pervaso da una febbre di fare, di cambiare tutto. E la sua disperazione acerba, mascherata dall’esaltazione, la riversa nel suo libro “Viva Caporetto!”.
Il libro ha un cammino tribolato, esce nel 1921 nella sua Prato. Il titolo sembra inneggiare alla disfatta, e pubblicato con il cognome tedesco, da nemico! Un’ignobile offesa. Viene censurato e requisito. Lo rimaneggia e lo ripubblica nel 1923 con il titolo: “La rivolta dei santi maledetti”. Non basta. Sarà sequestrato da tre governi: Giolitti, Bonomi, Mussolini. L’autore licenziato dal suo impiego ministeriale.
Malaparte negli anni parlerà di un equivoco. Lui ha partecipato alla cruenta battaglia di Bligny, la seconda battaglia della Marna. Sono suoi i versi: “I morti di Bligny giocano a carte.” Era nella Brigata Alpi, ha ricevuto una croce di guerra al valor militare e una medaglia di bronzo. Come poteva essere considerato un vigliacco, un traditore? Ma nel libro cosa c’è? Chi sono i santi maledetti?
Il fulcro: la rotta di Caporetto e il Generale Cadorna che aveva addossato tutta la colpa ai soldati. “Vigliaccamente arresisi al nemico senza combattere”, nel suo comunicato. Per Malaparte il fenomeno Caporetto è una rivoluzione, la rivolta sociale dei fanti. Nei fanti vede i sanculotti che assaltano la Bastiglia. “… i laceri, i sudici, i buffi e miserabili soldati di fanteria morti a migliaia senza capire e farsi capire.” Sono loro i santi maledetti!
I conservatori avevano salutato con entusiasmo la guerra perché avrebbe rimandato l’avvento del socialismo. Nel contempo diffidenti per dover dare le armi al popolo. Grande confusione, Gramsci aveva scritto articoli a favore dell’intervento e Togliatti si era arruolato volontario.
Malaparte nel libro si presenta come un fante tra i fanti e avverte che per leggerlo occorre essere stati disperati. Insiste subito che Caporetto, orrore e sangue, è l’inizio di una rivoluzione. Uno sguardo al passato e rimprovera l’anima torpida di una razza fatalista salvata da tre uomini: Mazzini, Leopardi, Garibaldi. Dopo di loro quasi il nulla, i dirigenti “scatole di carne in conserva”, “gli eroi pensionati”. La sudicia democrazia invadente…
Nel 1914 ecco il proletariato armato. Malaparte è convinto che la civiltà proletaria sarebbe sortita dalle trincee. Ci sono i morti e per i soldati “la morte è mistero e maledizione, come la vita.” Ripete più volte che quel popolo di combattenti non capiva nulla delle sapienti elucubrazioni degli ufficiali sulle ragioni del conflitto. Il generale: “Chi sono gli austriaci?” “Eccellenza sì,” gli risponde la recluta. Una moltitudine gli analfabeti.
La prosa dell’autore è da epopea: “I fanti andavano a stendere le proprie carcasse sui fili di ferro spinato, come cenci ad asciugare”. Ancora: “La mitragliatrice butterava i morti e i vivi col suo vaiolo di piombo”. I soldati che vanno in licenza trovano un Paese straniero a loro. I pacifici borghesi, gli imboscati, gli esonerati sono infastiditi da quelle figure torve non da parata. E c’era l’abbraccio del patriottismo retorico che i fanti scansavano. Finivano con il rimpiangere la buca fangosa. Nelle pagine è ricordato il fumoso armiamoci e partite degli oratori da loro tuoneggiato alla massa plebea destinata al sacrificio.
E col passare dei mesi quell’ammasso di carne, composta da contadini e artigiani, si accorge che deve morire per il possesso di un pugno di terra, un bosco. Avvengono inutili massacri magari per un capriccio. E non può opporsi, è disfattismo severamente punito.
I Comandi Superiori li considera tutti un’accozzaglia di bruti, senza diritti. Nel 1917 i feriti invece di andare in convalescenza sono ributtati nelle trincee a coprire i vuoti. Il fante è solo con davanti la morte e dietro la vergogna.
Incomincia la rivolta che viene celata, pochi casi criminali diranno. Cedimento morale, sciopero militare? I plotoni di esecuzione lavorano. Qualche ufficiale fucilato alla schiena, qualche carabiniere ucciso, no parecchi, spari contro le auto dei generali. Malaparte afferma che la fanteria, il popolo delle trincee, è divenuto una classe sociale antiborghese e antiretorica. Agli assalti si gridavano tra loro: “Avanti figli di puttane!”
I trinceraschi odiano i giornalisti bugiardi, le dame della Croce Rossa. Le damine: ”Povero soldatino! Come sono buoni i soldatini.” I soldati ai compagni: “Ho trovato due troie, mi hanno dato un brodo e una cartolina.” Frasi del libro.
Nei giorni di Caporetto il disastro: trecentomila prigionieri e trecentocinquantamila sbandati. Questi: “La guerra è finita! Ritorniamo a casa,” gettano i fucili. Sono i fanti spocchiosi, pidocchiosi che riemergono dalla terra. Gli sbandati sono un fiume di lava incandescente che si spaccherà in due tronconi, persino gli Arditi e Legionari di D’Annunzio si divideranno. Una parte tenterà di fare la rivoluzione, vaticinando quella russa. Produce il biennio rosso, una sequela inesauribile di scioperi, l’occupazione delle fabbriche. Un vortice la cui forza è solo ideologica, velleitaria, c’è il fallimento. L’altra parte, nella quale milita Malaparte, vincerà. Suo il libro: “Tecnica del colpo di Stato”, letto da Che Guevara.
Il 24 ottobre 1917 a Caporetto cosa è accaduto? L’artiglieria stranamente resta muta pur sapendo che ci sarà un attacco nemico. Ci sono reparti sorpresi dai gas e asfissiati, i militari verranno trovati intenti alle loro occupazioni paralizzati. Centinaia di cadaveri avvelenati. Anche nei ricoveri, nelle caverne, il fucile impugnato o stretto tra le gambe. Le figure di un museo delle cere. Sono i gasati dell’87° fanteria obliterati nell’oggi di allora e nel dopo. I movimenti sbagliati delle truppe che lasciano un fianco sguarnito, la riva destra dell’Isonzo in parte affidata a Badoglio. Inoltre nebbia e pioggia. Queste le motivazioni ma Malaparte non se ne occupa. Malaparte ha l’ansia di continuare il Risorgimento non più contro gli Austriaci, i Borboni ma i detentori dell’Ancien Régime. E tutto questo lo percepisce in Caporetto. Una rivoluzione italiana che abbia come suo principe l’individuo mentre quella russa ha la collettività. Malaparte non è un pacifista, la guerra per lui è un’amante che lo ha tradito perché non gli ha dato quanto auspicava. Quel cambiamento avverrà qualche anno dopo con la marcia su Roma, alla quale parteciperà.
L’esperienza della Grande Guerra sarà per lui un tarlo dal rodimento continuo, una macerazione infinita. Scriverà: “In tutta la vita un inconscio ricordo della guerra, dei suoi orrori, delle sue incantate ore felici.” In “Mamma Marcia” confesserà di aver dovuto sparare a un compagno ferito per evitargli una lunga agonia dolorosa.
Sempre nella prima guerra mondiale dall’altra parte del fronte c’è un ragazzo dell’età di Curzio, Ernst Junger, che affronta la guerra come lui. Il suo corpo ne avrà le stimmate con diverse ferite. Scrive un libro, “Nelle tempeste d’acciaio”, che ha analogie con Viva Caporetto! Una similitudine singolare. Sono due angeli guerrieri figli di una madre crudele, Medea per tanti. Una donna lugubre che insegna loro giochi assassini e li premia. Ernst non accusa della disfatta i generali ma “il nemico interno”, l’apparato politico.
Nella divisa Curzio è duttile Ernst rigido suonano la stessa sinfonia ma avversari, in bande diverse. Perderanno l’innocenza, il tedesco ridurrà l’eroe a un lavoratore, l’italiano inseguirà un fantasioso socialfascismo.
Caporetto sarà salvato da Palazzeschi che cerca di metterci una pezza: “E poi non è Caporetto il padre della vostra vittoria?” Gli fa eco Malaparte: “Senza Caporetto noi avremmo perduto la guerra. Caporetto è stata la rivoluzione che ha smascherato, bollato a fuoco tutti i ruffiani e le sgualdrine che riempivano il paese.”
Caporetto ora è Kobarid, di noi è rimasto un ossario. In barba ai trattati di pace, al globalismo proviamo un dolore, fastidio e nostalgia come per un vecchio amore che non c’è più. Non riusciamo a dimenticare e… non potevamo far meglio?
Non si doveva entrare in quella sciagurata guerra nel 1915, voluta da estrema destra ed estrema sinistra, con le leggerezze di poeti e di nazional-imperialisti ciechi, con la benedizione del Re e della massoneria. Aveva scritto decenni prima il senatore Pasquale Villari, ‘Le sconfitte di Custoza e Lissa’ :
«Bisogna però che l’Italia cominci col persuadersi, che v’è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete, i burocrati macchina, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l’operaio inesperto, l’agricoltore patriarcale, e la rettorica che ci rode le ossa. Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino, ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e 5 milioni di arcadi.»
Memorie di un mio zio, soldato semplice sul Carso: ‘quando dovevamo andare all’attacco schieravano dietro i carabinieri con l’ordine di tirare ad uccidere chi non avanzava’ (contro un ‘altra morte quasi certa). Certo che lì si semina per il Biennio Rosso…o per il fascismo, favorito per contrastarlo…