“State buoni se potete, tutto il resto è vanità”, cantava Branduardi negli anni ’80 in “Vanità di vanità”, reinterpretando molto garbatamente un componimento cinquecentesco di San Filippo Neri, per la colonna sonora di un film biografico a lui dedicato. E Vasilij Rozanov, il “Nietzsche russo”, avventurandosi semel in anno fuori dalle sue considerazioni religiose ossessivamente ribadite, chiosava, con altrettanto pragmatismo (e forse autocritica): “Che cos’è uno scrittore? Bambini abbandonati, una moglie dimenticata, e vanità, vanità”.
Non ci risulta che Giuseppe “Bepi” Berto abbia mai dimenticato la recentemente defunta moglie, Manuela Perroni – quantomeno non per più del tempo di qualche fugace scappatella -, né abbandonato la figlia Antonia, neppure durante i peggiori accessi del suo “male oscuro” (d’altro canto, la vedova Berto pareva, da una bella intervista di Marco Cicala per “Il Venerdì di Repubblica” risalente al 2016, un soggetto decisamente poco… dimenticabile!), ma quanto alla vanità, certamente avrebbe potuto confermare la diagnosi di Rozanov. E anzi, ha fatto di meglio: nella primavera del ’65, reduce dal successo del suo più celebre romanzo, ha scritto, per la “Strenna di Natale” della Rizzoli, un divertente pamphlet “bifronte”, “Elogio della Vanità”, misteriosamente scomparso per poi ricomparire di recente ed essere meritoriamente ripubblicato da Settecolori con una prefazione di Cesare de Michelis (2021 e poi 2023, 12 euro).
L’elogio di Berto, bifronte perché al contempo elogio e critica e anche perché ispirato per un verso all’“Elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam – nel contenuto – e per l’altro ai polemisti francesi settecenteschi – nello stile – reca un sottotitolo ancor più rivelatore: “ovvero vediamo un po’ come siamo combinati malamente”, ed è stato decisamente profetico nel dichiarare nudo il re del narcisismo che dilaga nella società contemporanea, in cui perfino il catalogo delle vanità e la loro “fiera”, celebrata nel titolo di una nota rivista di moda americana degli anni ’80, sono decaduti a vista d’occhio – basti solo pensare che, ancora nel 1996, Marie Brenner pubblicò su “Vanity Fair” un feroce articolo-denuncia sull’industria del tabacco intitolato “The man who knew too much”, e che, su una pressappoco analoga rivista di costume francese, “Elle”, fino agli anni ’70 comparivano, tra gli altri, i racconti di Jean Giono, tra cui “La bella ostessa”, poi confluito nei “Récits de la demi-brigade”.Tabacco, Bacco e Venere… ridotti anch’essi in cenere – dal proprio stesso sfrenato materialismo, come suggerisce Tom Wolfenel suo “Falò delle Vanità” –, si potrebbe dire, non volendo essere volgari, finendo per menzionare altre sostanze meno nobili della cenere.
“Insomma”, conclude Berto, “Non è proprio un bel mondo questo che ci è uscito di penna, tanto che al punto di finire il componimento non sappiamo mica bene come cavarcela, e ci verrebbe voglia di terminare come il grande Erasmo che all’ultimo capitoletto del suo ‘Elogio della Pazzia’ diede il titolo ‘Conclusioni: ho scherzato’, però mentre a proposito della pazzia è facile scherzare e anzi sembra che sia l’unica cosa da farsi sensatamente, a proposito della vanitas vanitatum, amenoché non si voglia ridurre il nostro vivere civile ad un grosso manicomio invece che ad un gran bordello com’è nostro convincimento, bisogna concludere con qualcosa di consolante…”
Più simile nella sostanza, dunque, a un’“Avvelenata” di Guccini, che si conclude su una nota positiva e fiera, con un ironico “E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare/Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare, e a culo tutto il resto” che a un medievaleggiante cantico di Branduardi, l’“Elogio della Vanità” tutto contemporaneo di Berto si attesta così sulle posizioni di William M. Thackeray, esperto per antonomasia di vanità: “Sì, d’accordo, tutto è vanità: ma chi confesserà di non volerne una fetta?”.
Camilla Scarpa