Gianfranco Peroncini, siamo al terzo volume della Maledizione dei centurioni. Di che cosa tratta, all’interno della tua ricostruzione della guerra d’Algeria?
“Siamo a metà della storia. I primi due volumi della Maledizione dei centurioni, partendo dall’esperienza della guerra d’Indocina, hanno preso in esame il periodo che va dalla fine della cosiddetta “battaglia di Algeri” sino al giugno del 1958, che segna il ritorno alla guida della Francia del generale de Gaulle. Il terzo dei sei che compongono la ricerca, “Le chemin de croix dei centurioni. Dal malcontento alla dissidenza”, inizia da qui, conducendo sino alla vigilia della “settimana delle barricate” del gennaio 1960. Una cronaca destinata a trascolorare nella Storia, scandita dal drammatico percorso che dall’esaltazione provocata nei sostenitori dell’Algeria francese per il ritorno aux affaires dell’uomo del 18 giugno, passò prima alla diffidenza, poi alla disillusione per approdare, infine, alla rivolta”.
Perché questo inesorabile percorso destinato a uno scontro lacerante per la Francia?
“Dopo le giornate roventi ed entusiasmanti del 13 maggio 1958 che avrebbero portato de Gaulle all’Eliseo sugli scudi della rivolta delle legioni di Algeri, l’attitudine del generale appena afferrate le redini rese inquieti gli ambienti militari e civili più sensibili alla causa dell’integrazione dei dipartimenti nordafricani. Con un senso d’angoscia strisciante ma inesorabile cominciò a prendere piede la sensazione di avere gettato al vento un’occasione irripetibile.
Sin dalle prime mosse, l’ex esule di Colombey sembrava manifestarsi come lo strumento di un disegno di più ampio respiro che mirava a ristabilire forza e fiducia nelle istituzioni per consentirle di reggere l’urto delle nuove sfide lanciate da una società proiettata verso nuovi scenari globali che imponevano l’abbandono della sovranità francese in Algeria, in vista di più moderne e articolate strutture di controllo neocoloniali”.
Quando comincia a delinearsi la frattura inevitabile?
“L’alba del 1959 segna l’inizio di una tormentata e drammatica gestazione, dovuta alle calcolate ambiguità dell’esecutivo, che avrebbe confermato quell’inquietante malaise dell’Armée che si collocava alle radici del 13 maggio. Malaise come misto di disagio, inquietudine, malcontento, la dolorosa sensazione di un non meglio precisato turbamento psicologico, sempre più dolorosamente radicato nei quadri operativi dell’esercito francese.L’autunno del loro scontento si sarebbe prima trasformato in intolleranza, aprendosi poi alla dissidenza per sfociare, infine, nella rivolta armata… Una tragedia che sarebbe iniziata il 24 gennaio 1960 con il dramma delle barricate di Algeri, primo e tragico lampeggiare di un’ormai prossima quanto inevitabile guerra civile”.
Quali furono i primi segnali?
“La prima conferma si constatò nella composizione del nuovo gabinetto neo-gollista. Debitore dell’incruenta investitura ai “cavalli di razza” allevati nelle scuderie della vituperata IV Repubblica, il generale impose nel governo una selezionata oligarchia di uomini legati a doppio filo al passato sistema politico, destinati a tranquillizzare i “poteri forti” che dietro le quinte avevano favorito e oliato i meccanismi necessari a quel coup istituzionale indolore, innescato dalle torride giornate del maggio algerino. Nel quadro di quella che potremmo definire una “transizione nella transazione” destinata a cambiare tutto perché, in fondo, non cambiasse niente. Secondo l’imperitura lezione del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa”.
Quali le ragioni autentiche, al di là della retorica istituzionale, della decisioni di de Gaulle?
“Erano all’orizzonte grandi cambiamenti, rivoluzioni sociali ed economiche di respiro epocale. E in questa ottica di cambiamento, in fermento inarrestabile, le strutture della IV Repubblica avevano ormai fatto il loro tempo. Gli interessi dei grandi monopoli e delle multinazionali in piena crescita non coincidevano con quelle dei petit-blanc radicati in Algeria. Il quadro politico-economico della IV Repubblica era diventato un giogo insopportabile per i poteri economici che intendono mettere lo Stato a loro disposizione. L’era delle “fusioni-concentrazioni” e delle “modernizzazioni” del sistema economico conoscerà infatti uno straordinario vigore sotto il controllo del generale e poi di Georges Pompidou e Valéry Giscard d’Estaing. Il trasferimento delle prerogative principali del Parlamento verso l’esecutivo, e più precisamente nelle mani del presidente, sarà una delle caratteristiche essenziali del nuovo regime. I rappresentanti diretti, o indiretti delle aristocrazie venali diventeranno da allora sempre più presenti nel Consiglio dei ministri, nei ministeri e nei grandi apparati dello Stato.
È la questione cruciale dei tempi ultimi, la definitiva presa di possesso intervenuta nella seconda metà del XX secolo – nello specifico francese proprio negli anni del ritorno al potere del generale de Gaulle – a proposito della suddivisione dei poteri: il passaggio, non più mediato da strumenti di facciata, dell’autorità decisionale al capitalismo finanziario, come dettagliatamente descritto dal professor Jacques Marseille nel caso di studio dell’esperienza algerina e su cui torneremo dettagliatamente nel conclusivo volume della Maledizione dei centurioni”.
Non era quello che avevano sperato i quadri più dinamici e combattivi dell’esercito.
“Con gli avvenimenti del 13 maggio l’esercito aveva passato il Rubicone e aveva assunto una nuova consapevolezza politica. Come scriverà il colonnello dei paras Roger Trinquier, protagonista di primo piano di quelle vicende, se de Gaulle avesse pronunciato ad Algeri la parola magica “integrazione”, se avesse affermato senza equivoci la volontà della Francia di realizzarla concretamente, la guerra d’Algeria sarebbe terminata nel 1958 e il problema algerino definitivamente risolto.
Quattro anni di guerra, di morti, di feriti, di rovine, di spese colossali, sarebbero stati risparmiati a tutti. Le reticenze di cui avrebbe dato prova avevano finito per allontanare i musulmani che si erano impegnati di più per la causa francese i quali dicevano, scoraggiati: «Non avete voluto ammetterci in famiglia, ci considerate dei bastardi». Un rimprovero, purtroppo vero, che andava al cuore del problema”.
Nasce qui il dramma degli harkis, le milizie algerine fedeli alla Francia, con i terribili massacri del dopo indipendenza?
“Abbiamo il personale ricordo dello storico britannico Alistair Horne. Bernard Tricot, uno dei più stretti collaboratori di de Gaulle in quegli anni, gli aveva fatto notare come de Gaulle non sicongratulò mai con gli harkis, con gli algerini che combattevano per la Francia, a prezzo d’un terribile rischio personale. Il che non impedì al generale di consentire, come richiesto dall’alto comando di Algeri, l’intensificazione dell’arruolamento delle milizie localiper vincere la guerra sul terreno militare e poter trattare con l’Fln da una posizione di forza. In vista di un’onirica e improponibile escissione del Sahara e delle sue immense ricchezze petrolifere dal quadro istituzionale di una nuova Algeria indipendente.
Il suo intimo disprezzo per gli harkis, formidabile pietra d’inciampo per i progetti dei poteri retroscenici globali, li condannò alla morte atroce che sappiamo. E che de Gaulle era l’unico, sin da allora, a poter prevedere senza dubbi di sorta. Le vittime si contarono a decine di migliaia, tutti combattenti musulmani schierati sotto le bandiere della Francia. Che, in quei giorni, era a tutti gli effetti legali, la loro patria. Pur sotto le spoglie di matrigna”.
Un dramma “silenziato” di cui nessuno parla, almeno fuori dalla Francia.
“Secondo le stime di Horne, gli algerini che persero la vita in questo modo furono tra i 30 e i 150mila. In condizioni atroci. Le forze francesi, costrette all’inerzia dalle clausole degli accordi di Évian, assistettero in angoscia estrema al massacro degli ex-alleati. In taluni casi, fu ordinato alle unità francesi di promettere agli harkis armi migliori, per indurli a cedere quelle che ancora detenevano. Poi, nel fondo della notte, le unità se n’andavano, abbandonandoli al loro destino. Una tragedia più odiosa ancora di quella della riconsegna alleata dei prigionieri di guerra russi nel ’45. La domanda da porsi è a chi risale la responsabilità morale, politica e storica di questi terribili e opportunamente dimenticati massacri? Agli algerini, colpevoli di avere recitato sino in fondo il copione di odio feroce imposto dalla fine di ogni guerra civile? Oppure le responsabilità vanno cercate altrove…?”.
Nel libro, in riferimento a de Gaulle, si parla di dicotomie schizofreniche…
“L’11 giugno 1964, due anni dopo la fine drammatica di un conflitto ad alto tasso di ferocia da entrambe le parti, nel corso di un viaggio in Piccardia, in quell’ansia ossessiva e più o meno inconscia – come dirà Raymond Aron – di «trasfigurare la disfatta e camuffare gli orrori», de Gaulle arriverà a ricostruire pro domo sua l’esito della guerra d’Algeria dichiarando a Saint-Quentin: «Per uscire dal dramma, era necessario risolvere un problema grave e crudele, quello dell’Algeria. L’abbiamo risolto come si doveva, conformemente al genio della Francia e al suo interesse. Ed entro un anno, vi chiamo a testimoni, un milione di francesi stabiliti in quel paese sono stati rimpatriati senza scosse, senza drammi, senza dolori, e integrati nell’unità nazionale»…
Sans heurt, sans drame, sans douleur… È con questo crescendo dialettico, in bilico tra follia, schizofrenia e irrisione che de Gaulle pretese di definire le condizioni dell’esodo di un milione di disperati. Senza scosse: un milione di esseri umani cacciati dalle loro case, costretti ad abbandonare tutto e a perdere tutto da un giorno con l’altro, in fuga dal loro paese di nascita con due valigie al seguito. Senza drammi: gli arresti, gli internamenti, le brutalità, i bambini lasciati senza latte e senza pane, le case devastate, il mitragliamento dei tetti, delle terrazze e dei balconi, i rapimenti e gli omicidi, 5.000 desaparecidos, 150mila harkis sgozzati e massacrati…”.
Il petrolio algerino era una delle poste in gioco più importanti per l’Eliseo.
“Il Sahara, grazie all’opera dei tecnici e delle compagnie petrolifere francesi, si era da pochi anni dimostrato una fantastica riserva di energia naturale. Non a caso, il famoso discorso del 16 settembre 1959 in cui de Gaulle – mandando in brodo di giuggiole improvvidi, incauti o ipocriti progressisti di tutte le sfumature – propose agli algerini l’autodeterminazione con la scelta tra indipendenza, associazione e integrazione, conteneva un passaggio decisivo, solitamente e stranamente ignorato nella ricostruzione di quelle giornate da parte della vulgata classica, forse perché troppo imbarazzante, seppur assai istruttivo.
Nell’ipotesi di una scelta per l’indipendenza, quella che de Gaulle definiva “la secessione”, sarebbe scattato il meccanismo della spartizione del territorio nordafricano in quanto, «qualsiasi cosa accada» (whatever it takes…), la Francia intendeva assumere le misure necessarie per assicurare lo sfruttamento, il trasporto e l’imbarco del petrolio sahariano che sono opera della Francia e che interessano tutto l’Occidente.
La politica algerina di de Gaulle e dei suoi ispiratori si poteva riassumere così: l’integrazione costava troppo. Meglio l’associazione, cioè il governo di un’Algeria degli algerini, appoggiato sull’aiuto della Francia e in unione vincolante per l’economia, la difesa, le relazioni esterne. Un brillante e icastico sunto di dottrina neocoloniale. Il tutto senza ingombranti e costosi impegni sociali da doversi accollare in quota di entità statale nazionale”.
Ma de Gaulle non passa come una sorta di “liberatore” dell’Algeria?
“Attenzione. Nell’ipotesi originaria gollista non c’era spazio per alcuna malintesa generosità. La Francia, se concedeva l’indipendenza politica alla nazione algerina, non era disposta a cedere una goccia del petrolio e delle ricchezze del Sahara. La situazione, in seguito e com’era prevedibile, si evolse in modo differente ma già nel giugno del 1958 quelli erano gli obiettivi individuati da de Gaulle e dal suo entourage. In cui emergevano uomini come Georges Pompidou, elemento fondamentale e decisivo per stabilizzare la V Repubblica francese nella fase di passaggio e transizione dalla gestione carismatica ed eccezionale del generale de Gaulle alla “normale” amministrazione di potere.
Pompidou, non era un politico di professione. Nel 1944 entra nel cerchio magico del generale e dopo la fine della guerra diventa membro del Consiglio di Stato e capo di gabinetto di de Gaulle. Funzionario della Banque Rothschild dal 1953, tre anni dopo venne nominato direttore generale, incarico che mantenne sino all’aprile 1962 quando fu nominato primo ministro per sostituire Michel Debré. Ereditò poi la difficile successione all’Eliseo dopo il “regno” del generale de Gaulle, segnando con la sua parabola personale l’attuazione del passaggio dell’autorità decisionale dal “governo del popolo” al capitalismo finanziario e al plebiscito dei mercati.
Più avanti, vedremo il ruolo decisivo svolto da Pompidou nel quadro delle trattative segrete tra il governo gollista e l’Fln che portarono alla firma degli accordi di Évian del marzo 1962, accordi che posero fine al conflitto algerino. Ma la sinistra internazionale, abbacinata dallo specchietto per le allodole della “decolonizzazione”, non ha ancora avuto il coraggio di trarre le conclusioni dai riscontri incrociati che si disegnano, inestricabili, tra guerra d’Algeria, interessi del capitalismo finanziario, de Gaulle e la V Repubblica, in un quadro organicamente strutturato da colonialismo, decolonizzazione e délestage (letteralmente, “scarico della zavorra”) neocoloniale”.
La strada era tracciata dalle prime ore del ritorno al potere di de Gaulle?
“La festa nazionale del 14 luglio, due mesi dopo il 13 maggio, venne festeggiata con la consueta parata militare ma con specifica solennità e un maggiore dispiegamento di uomini e mezzi. Per la prima volta i paracadutisti compaiono numerosissimi nella sfilata. A essi vengono tributate le più lunghe ovazioni: tutti conoscono la parte che hanno avuto nel 13 maggio. Si tratta, per loro, di una specie di consacrazione popolare. In questo scenario di appassionato fervore popolare il particolare più importante rimane il fatto che de Gaulle brillò per la sua più che imbarazzante assenza.
Decise infatti di disertare l’omaggio delle truppe che sfilavano sugli Champs Élysées, la via sacra dei trionfi francesi, preferendo passare in rassegna la flotta a Tolone. Un messaggio estremamente inquietante per gli uomini del 13 maggio e per i militari dell’integrazione. Sulle onde della rada di Tolone si andavano arruffando i venti di quello che di lì a non molto, inesorabile, sarebbe diventato un uragano, crudele e implacabile.
Come ammette lo stesso de Gaulle nelle sue memorie, i conti per l’Algeria erano già fatti. Si trattava solo di agire con cautela, con attenzione, con gradualità, per realizzare un’opera che non poteva essere rivelata in anticipo, «dovevo regolare la marcia per tappe con precauzione…, utilizzando ogni scossa come occasione per avanzare… se di punto in bianco avessi manifestato le mie intenzioni… si sarebbe sollevata un’ondata di furori tale da rovesciare l’imbarcazione…». Il neo presidente del Consiglio si mosse in questa ottica, calcolata con straordinario acume strategico e formidabili capacità tattiche. E inespiabile cinismo”.
Non è la ricostruzione consolidata di quelle vicende…
“Direi di no. Ma lasciamo la parola, ancora una volta, allo stesso de Gaulle che scriverà: «il mantenimento della nostra dominazione su paesi non più consenzienti diventava un impegno in cui avevamo tutto da perdere e niente da guadagnare». Tutto da perdere e niente da guadagnare… La formula della grandeurgollista dettata dalle esigenze del cartiérisme, di cui parleremo diffusamente nell’ultimo volume dell’opera.
Per ora basti sapere che si tratta di un movimento d’opinione nato in Francia negli anni ’60, reso popolare da Raymond Cartier, direttore di Paris-Match, che intendeva privilegiare investimenti più redditizi rispetto ai paesi dell’ex impero coloniale francese. Ribaltando l’analisi marxista sul problema coloniale secondo cui le ricchezze estratte dalle colonie erano necessarie alla sopravvivenza del capitalismo, Cartier, da ortodosso neoliberista anticoloniale, riteneva che il retaggio imperiale, a metà del XX secolo, fosse ormai diventato un ostacolo per lo sviluppo economico della Francia”.
L’esercito rimaneva l’unica opposizione concreta sulla strada dell’Eliseo?
“Il primo a rendersene conto era de Gaulle. Intenzionato a coprirsi le spalle con largo anticipo e valutando il pericolo rappresentato dai quadri di un esercito passato in Indocina e Algeria attraverso il fuoco e le dottrine della guerra rivoluzionaria, uomini con cui non erano ipotizzabili compromessi parlamentari, lusinghe paraministeriali, poltrone, promozioni e voti di scambio, de Gaulle iniziò una cauta ma implacabile strategia di epurazione.
Lo stato maggiore venne incaricato di disperdere qua e là, assegnandoli a unità di base in Francia o in Germania, i caporioni di maggio, a gruppetti di due-tre. Entro il marzo seguente, degli ufficiali implicati nel maggio non ne restavano in Algeria che due, circa millecinquecento essendo stati trasferiti o congedati. Poco alla volta scomparvero dalla scena algerina i maggiori protagonisti militari della guerra d’Algeria. Salan, Bigeard, Broizat, Dufour, Trinquier, Massu, Challe, silurati e defenestrati in epoche diverse e con differenti motivazioni o pretesti dal regime metropolitano. Graziani, Guilleminot e altri, per certi versi più fortunati…, caddero in combattimento, Saint Marc, Robin, Lecomte, Masselot e decine di altri verranno processati e condannati al carcere per avere tentato di opporsi con le armi alla politica del generale de Gaulle. Altri finiranno fucilati o, come Godard, Gardes, Argoud, Chateau-Jobert e Sergent, condannati a morte e costretti alla latitanza e all’esilio per lunghi anni.
La maledizione dei centurioni stava inesorabilmente prendendo anima e corpo, all’ombra delle nuove esigenze delle aristocrazie venali e del plebiscito dei mercati”.
De Gaulle non era uno che perdeva tempo…
“Decisamente no. Consolidato in poche settimane il suo potere con il referendum costituzionale che portò alla creazione della V Repubblica, le elezioni legislative e l’elezione alla presidenza della Repubblica il 21 dicembre 1958, vedeva il coronamento di una vita di successi e di sconfitte, di ritirate e avanzate, di trionfi e di catastrofi. Sempre e comunque straordinari, eccezionali, al di fuori del metro della mediocrità. Che odia.
Procederà così da subito al redressement financier della Francia, una delle pagine più importanti e non meno tempestose del nuovo governo de Gaulle. Tre aspetti ne costituiranno gli elementi fondamentali: una robusta svalutazione, un aggravio del prelievo fiscale, la liberalizzazione degli scambi con l’estero che avrebbe imposto al paese di uscire dalle pratiche protezioniste per affrontare la libera concorrenza dei mercati e della competizione internazionale. Un altro aspetto di quella più ampia politica di délestage che avrebbe travolto l’Algeria francese.
La misura era stata adottata per attirare i capitali stranieri in Francia ma per i critici si trattava solo di un grossolano escamotage ben noto ai “risanatori” dei conti pubblici: fare cassa vendendo i gioielli di famiglia. Sino a quel momento, l’amministrazione francese aveva frenato, bon gré mal gré, gli investimenti stranieri per evitare di mettere l’economia nazionale nelle mani di interessi strategicamente lontani da quelli nazionali”.
Che cosa accadde dopo?
“Le decisioni assunte dal regime gollista per rendere più agili e leggeri i regolamenti dei cambi, il 28 dicembre 1958, il 21 gennaio, il 15 maggio e il 26 giugno 1959, permisero agli investitori stranieri di rimpatriare senza difficoltà le liquidazioni dei propri investimenti insieme ai dividendi e ai profitti realizzati. Erano tutte misure destinate a venire incontro agli interessi del capitalismo finanziario internazionale in rampante globalizzazione che aveva già profittato largamente della svalutazione, tanto che il ministro delle Finanze Pinay aveva presentato una denuncia, all’indomani della svalutazione, contro gli speculatori che avevano beneficiato delle indiscrezioni di insider ben piazzati per trafficare alle spalle della valuta e dei contribuenti francesi. Come disse Jean Lacouture, eminente giornalista, storico e saggista francese, grand reporter e direttore agli esteri di Le Monde, un’operazione finanziaria che si dimostrò «conforme all’interesse generale del paese e a molti interessi particolari»…
Mentre il paese si avviava alle devastanti convulsioni degli ultimi quattro anni della guerra d’Algeria.
La propaganda gollista e la storiografia ufficiale, in sintonia con le strategie globali del “plebiscito dei mercati”, tendono ad accreditare, grazie a un monolitico spiegamento di strumenti di persuasione, la tesi secondo la quale se la Francia, sull’orlo di una crisi gravissima, riuscì a evitare il dramma della guerra civile a causa del conflitto in Algeria, il merito sarebbe da ascrivere alla condotta ferma, prudente, cauta e accorta del generale de Gaulle. A distanza di tanti anni, e passato il clima di rovente passione che esacerbò gli animi e le coscienze, vale forse la pena di interrogarsi, rovesciando l’assunto.
Occorre domandarsi, cioè, se il paese finì per trovarsi ad affrontare gli abissi di quel tragico conflitto intestino proprio ed esattamente a causa della politica ambigua e in apparenza schizofrenica adottata dai vertici istituzionali nei confronti dell’esercito, degli arabi fedeli alla metropoli, della popolazione dei petit-blanc europei, del resto delle masse musulmane ancora non schierate da una parte o dall’altra, prese in mezzo dalla propaganda e dal terrorismo dell’Fln, dalla repressione militare, dalle promesse dell’esercito e del governo di Parigi. L’esasperante altalena delle dichiarazioni oracolari provenienti dall’Eliseo contribuì certamente a mantenere in sella de Gaulle ma spalancò le porte dei più tragici e duri anni della guerra d’Algeria. E della storia della Francia”.
Esisteva un’altra via d’uscita?
“Nel 1958 la guerra poteva dirsi terminata, se si fossero affrontati con coraggio i due corni del dilemma. O con l’integrazione che avrebbe finito per coinvolgere nelle sue dinamiche economiche e socio-politiche anche i combattenti dell’interno dell’Fln, cui doveva necessariamente essere riconosciuta e attribuita una parte importante nella costruzione di una nuova Algeria. Algeria che – una volta uscita dalla spirale dell’odio e affratellata dall’ambizione e dalla speranza concreta di un futuro nello sviluppo e nel progresso – sarebbe, con il tempo e inevitabilmente, diventata federata o indipendente nel quadro di un più allargato ambito europeo. Con il concorso decisivo e determinante della popolazione pied-noir, in tutto e per tutto, culturalmente e psicologicamente, molto più “algerina” che “francese”.
Oppure il conflitto poteva chiudersi, subito, con la rinuncia definitiva della Francia. Sarebbe bastato definire i tempi tecnici necessari per l’organizzazione dello sganciamento e le garanzie per i musulmani rimasti fedeli. Una condotta scellerata condusse invece la Francia e l’Algeria a pagare un ulteriore tributo di sacrificio e d’impegni militari, economici e sociali, finiti nel sangue, nel lutto e nella tragedia. La guerra terminò nel 1962, quattro lunghi anni dopo.
Il ritorno di de Gaulle aux affaires dopo il 13 maggio 1958 segna lo spartiacque decisivo con l’inesorabile confronto che lo avrebbe opposto all’esercito.
Per i militari francesi il 1958 si concludeva, dopo le travolgenti speranze del maggio, su una nota di ansioso tormento, una cappa di indecifrabile ma palpabile inquietudine. Iniziava, senza che fossero in molti a rendersene conto con certezza, quel periodo tragico della storia della Francia che, come scrisse Soustelle, avrebbe visto il passaggio dell’ambiente militare dalla fase del dubbio a quella dell’angoscia, per sfociare poi alla rottura e al sangue. In estrema e drammatica sintesi, alla rivolta.
Domenica 24 gennaio 1960, sarebbe iniziato il dramma delle barricate di Algeri. Il primo atto della guerra civile franco-francese scatenata da una politica scellerata, che avrebbe condotto al putsch dei generali dell’aprile 1961 e all’avventura dell’Oas. Ma di questo, nei prossimi libri”.
Gianfranco Peroncini, La maledizione dei centurioni. 3 – Le chemin de croix dei centurioni. Dal malcontento alla dissidenza: il siluramento di Massu, Passaggio al bosco, Firenze, 2024.