Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore il racconto del nostro collaboratore Sandro Marano, “Evita a plaza San Martin”, inserito nella raccolta di racconti di AA. VV. “A passo di donna” (Adda Editore, 2024). Nella bibliografia tra le fonti sono citati “Eva Perón. Una biografia politica” di Loris Zanatta (Rubbettino, 2009) e gli articoli dedicati a Evita Perón di Gianni Marocco apparsi su Barbadillo il 19 e il 30 marzo.
Come scrive nella prefazione la curatrice Maria Pia Latorre: “Il volume contiene i racconti di 12 donne che sono state capaci di trasformare lo svantaggio socioculturale in opportunità, donne che hanno fatto di una limitazione sessista un riscatto, donne che possono diventare modelli di realizzazione e di speranza per tutti”.
I nove autori: Angela Aniello, Claudia Babudri, Nicola De Matteo, Lucia Diomede, Federica Introna, Maria Pia Latorre, Loredana Lorusso, Sandro Marano e Paola Santini hanno raccontato le storie di Nellie Bly, Cristina da Pizzano, Alda Merini, Giustina Rocca, Sulpicia, Belle Green da Costa, Jeanne Baret, Evita Peron, Bertha Benz, Helen Keller, Elizabeth Siddal e Luisa Spagnoli.
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Evita a plaza San Martin
A plaza San Martin l’ombra benevola delle acacie e delle jacarandàs smorzava la calura di quella fine d’estate australe. Le interminabili indolenti lineari strade della vasta città portegna e la schiamazzante energia di certe vie centrali e dei porti parevano acchetarsi solo nelle grandi piazze e nei giardini dove si adagiava la sera. Nonostante la presenza di alcuni imponenti edifici, Buenos Aires non aveva nulla di slanciato, non era una città ascendente ed erta, non aveva caliginose ciminiere. Le sue periferie parevano continuare la vasta pianura rossiccia, la sconfinata pampa. Il tenue azzurro del cielo e del mare si rispecchiava nella città. A plaza San Martin sostava Eva Duarte. Seduta su una panchina in ombra respirava a pieni polmoni l’odore della terra bagnata e ripercorreva a volo d’uccello i nodi della sua vita: l’infanzia tribolata, i legami familiari, i compagni di scuola che la trovavano nel contempo dolce ed autoritaria, i primi passi nella carriera di attrice, l’incontro con l’uomo che avrebbe segnato la sua vita…
«Ma non era bruna e mingherlina?»
«Chi?»
«La piccola bastarda, la figlia di don Juan».
«Sì, ricordo vagamente. Però non potrai negare che è diventata una donna attraente, raffinata, dai modi accattivanti. Capelli biondi e lunghi raccolti a chignon, tailleurs impeccabili.»
«È solo una jegua.»
«Dicono che abbia talento. A Junin era la prima della classe in recitazione. Non fa ora l’attrice di teatro e alla radio? »
«Sì, ha fatto strada nel mondo dello spettacolo… grazie alle sue molteplici relazioni… È scaltra, spregiudicata, non ha alcuno scrupolo nell’usare tutte le armi della seduzione femminile…»
Quante volte la piccola Eva aveva sentito su di sé gli sguardi sprezzanti e ironici dei ricchi borghesi, dei bigotti, delle stesse sue coetanee che la allontanavano per ordine dei genitori perché non era una figlia legittima. Perfino quel giorno che la madre portò lei, che aveva sette anni, e i fratelli ad assistere alla veglia funebre del padre, di quel padre che si era negato loro due volte, la prima con l’abbandono della madre e dei figli naturali, la seconda con l’improvvisa morte per un incidente d’auto.
Quante volte aveva colto, al suo passaggio, spezzoni di frasi ingiuriose, parole appena bisbigliate, maldicenze, ammiccamenti. Quante volte aveva pianto di nascosto vedendo la madre sfinirsi fino a tarda notte a rammendare vestiti e a confezionare pantaloni per poter mantenere sé stessa e i suoi figli.
E fin da subito un sentimento aveva dominato il suo spirito, un sentimento di tenace e durevole indignazione contro le ingiustizie sociali. L’indignazione aveva cacciato la vergogna, aveva messo la sordina alla sua intima sofferenza, aveva fatto sì che abbracciasse la causa degli ultimi.
Se non posso eliminare le bruttezze del mondo, si era detta, potrò però regalare agli umili, ai poveri, ai disprezzati dalla sorte il sogno di un futuro migliore. Non c’erano nei tanti sobborghi della capitale tra le umili case a uno o due piani, tra le chabolas, bambini scalzi ed affamati? Donne discriminate e sofferenti? Lavoratori sfruttati e malpagati? Si sarebbe guadagnata la loro fiducia. Costi quel che costi, avrebbe realizzato il suo sogno di tutelare i lavoratori e i loro diritti e di migliorare le condizioni di vita dei bambini, delle ragazze madri, degli anziani, dei disabili, dei più poveri. Ma, per fare ciò, doveva aprirsi una strada nel mondo.
Una fulminea intuizione, una naturale prontezza nell’apprendere, la sua straordinaria abilità nel crearsi legami e relazioni personali e familiari, tutto questo le aveva risparmiato lunghi studi e libresche meditazioni.
Eva non era una sprovveduta, non era certo nata sotto un cavolo. Sapeva come va il mondo. Era una donna giovane, sognatrice, ambiziosa, risoluta, ma già temprata dalle amarezze e dalle difficoltà. Era diventata un’attrice. La sua bravura, soprattutto nei radiodrammi, sembrava ottenere giorno per giorno un crescente riconoscimento.
Nel frattempo c’era stata la rivoluzione del 4 giugno del 1943, che prometteva all’Argentina un nuovo corso.
Uno dei suoi protagonisti era un certo Juan Domingo Perón, un brillante ufficiale dell’esercito, dalla fisionomia india, colto, appassionato di molti sport, tra cui il pugilato e la scherma che praticava. Eva aveva ascoltato alla radio i suoi discorsi. Voleva restituire al popolo argentino la sua dignità di nazione contro le oligarchie straniere ed interne che lo umiliavano. In lui, dopo la sua breve visita in Italia nel giugno del 1940, si era radicata l’idea di una terza posizione tra il collettivismo sovietico e l’imperialismo americano. Sulle ceneri della democrazia parlamentare intendeva costruire una democrazia sociale ed organica in accordo con la dottrina sociale cattolica, dove lo Stato soddisfacesse i bisogni materiali del popolo senza dimenticare le sue aspirazioni spirituali.
«Credo che la cosa migliore del mondo risieda negli umili», aveva dichiarato. «Le due braccia del nostro movimento sono la giustizia sociale e l’assistenza sociale. Con esse diamo al popolo un abbraccio di giustizia e di amore.»
Non erano forse le stesse cose in cui Eva credeva? Non erano quelle le parole che pure lei quotidianamente si ripeteva? I suoi ideali?
Quel 22 gennaio del 1944 si erano finalmente incontrati. Eva era stata inviata insieme agli altri rappresentanti degli artisti al Luna Park di Buenos Aires per partecipare ad una manifestazione organizzata da Perón. Si raccoglievano fondi da destinare alla ricostruzione dei paesi distrutti dal terremoto che aveva mietuto migliaia di vittime. Lui era un uomo ben oltre i quaranta, lei una giovane di venticinque anni. Lui era gioviale, misurato, sobrio. Lei era impetuosa, dinamica, determinata.
«Nella nuova Argentina i soli privilegiati saranno i bambini», le aveva detto Perón. Avevano entrambi grandi progetti per l’Argentina. Ideali e sentimenti li accomunavano. Si erano piaciuti e avevano deciso, già dopo poche settimane dall’inizio della loro relazione, di andare a vivere insieme, nel nuovo appartamento di Eva nel quartiere della Recoleta. Un alto ufficiale dell’esercito, un ministro del lavoro che prendeva questa decisione sarebbe stato mal giudicato dai ricchi borghesi benpensanti. Ma Perón non temeva di sfidare la morale convenzionale. Anche per questo Eva lo aveva amato. “Molti credono che io sia una semplice avventuriera”, pensava Eva. “Che meschinità! Cosa sanno loro di come arde la mia anima al fuoco di Perón, dei suoi sogni, dei suoi ideali. Pensano che io calcoli con Perón, ma misurano la mia vita con il piccolo metro delle loro anime”.
Adesso toccava a lei andare in scena. Ma non era più una finzione, una recita, un sogno ad occhi aperti. Occorreva sporcarsi i piedi, schierarsi, prendere parte ad un grande progetto politico popolare e nazionale, usare tutte le leve del potere, la seduzione, la beneficenza, l’autorità, se occorreva il pugno di ferro, gettarsi a capofitto nel cuore della tormenta.
«Eva, i tuoi discorsi infuocati scuotono le folle, la tua economia del dono rafforza i legami col popolo, ma attenta, i nostri nemici sono numerosi e potenti. E non parlo solo dei nemici esterni, ma anche interni. Le oligarchie acquiescenti al capitalismo straniero, i privilegi delle classi abbienti, i latifondisti, gran parte degli intellettuali imbevuti di dottrine straniere, le mire degli Stati Uniti, perfino alcuni settori del nostro movimento, cui dà ombra il tuo eccessivo zelo.»
«Non preoccuparti, Juan. Non esiste forza capace di piegare un popolo che ha coscienza dei propri diritti. Se dovremo usare la forza per salvare l’unità del popolo, vuol dire che lo faremo.»
«Ascolta, Eva. Ci troviamo sotto pressione. Il controllo dei media, della stampa, l’epurazione dei funzionari che dissentono, la tua azione sociale, encomiabile certo, sì, comprendo che tutto ciò sia necessario, ma ci vuole misura, i funzionari scelti soltanto per fedeltà e non per efficienza, i maneggi non sempre limpidi della cosa pubblica, di cui ci accusa non solo l’opposizione, tutto questo mi preoccupa, Eva.»
«Calunnie, Juan, infamie, ingiurie. Sapremo piegare i nostri nemici.»
«Ecco, Eva, ora tu vai su tutte le furie… Ma anch’io voglio bene al popolo, lo sai. È che avverto nel tuo amore per il popolo una pena segreta.»
Seduta su quella panchina Eva ripensava a quelle parole: nel tuo amore c’è una pena segreta. Sì, era vero. Aveva colto nel segno Juan. Lei provava una strana sensazione, come se non potesse attardarsi, come se dovesse fare tutto in fretta e subito. Sì, sentiva che il tempo a sua disposizione era poco. Avrebbe fatto in poco più d’un lustro quello che richiedeva un tempo di almeno due generazioni? Avrebbe avuto il tempo necessario a far crescere la pianticella messa a dimora? Già, quel tempo che corre inesorabile, che le metteva addosso un’implacabile genuina ansia, quel tempo che si confonde col destino mortale e di fronte al quale l’uomo è disarmato. “Di scivolosa materia son fatto, di misterioso tempo”, cantava il poeta. Il tempo era il suo cruccio, la sua pena segreta. E lei ambiva a restare nelle pagine di storia.
Toh! Cos’è questo clamore? È settembre. E Plaza de Majo è gremita come non mai da un’immensa folla, centinaia e centinaia di migliaia di uomini e donne. A perdita d’occhio. Ci sono i suoi descamisados, ci sono le donne del suo partido peronista femenino.
“E-vi-ta, E-vi-ta, E-vi-ta”, scandisce a più riprese la folla. Ed ecco che lei si affaccia al balcone della Casa Rosada, un viso di perla, labbra rosse, elegantissima nel suo tailleur bianco, nella sua acconciatura con chignon, con i gioielli che la adornano. La sua voce è stentorea. Va dritto all’argomento. «È col cuore colmo di gioia, è col cuore colmo di orgoglio, che vi annuncio che il suffragio femminile è legge della Nazione argentina.»
Un sordo prolungato mormorio si leva tra la folla, come il vento che agita insistente le fronde degli alberi nei boschi, per esplodere poi in un grande incessante boato. È come un uragano d’amore che scuote l’intera piazza. “Es pueblo, es el camino. Perón o muerte. Socialismo nacional”. Si susseguono gli slogan. “Evita, tú eres la nuestra esperanza”.
È una vera e propria liturgia quella che si sta compiendo, dove la politica si fonde con lo slancio mistico, la passione con l’ideologia. Dio, patria, Perón. Lei, figlia del popolo argentino, a cui la natura non aveva concesso di essere madre, in quegli attimi si tramutava in madre. Madre de los Descamisados, madre degli ultimi, degli emarginati, degli umiliati ed offesi.
La visione era d’un tratto svanita. Si era presentata miracolosamente davanti a lei, come un misterioso e straordinario anteprima di quel che sarebbe accaduto di lì a qualche mese. Il bagno di folla, il discorso infuocato, le invocazioni, gli slogan urlati e ritmati… Aveva sognato? Sarebbe stata un’illusione? No. Era solo l’inizio d’un lungo faticoso cammino. Avrebbe davvero vissuto quella giornata di gloria. Quel 23 settembre finalmente sarebbe cessata l’esclusione delle donne dalla vita politica e sociale.
La notte avvolgeva lei e tutta plaza San Martin. Aveva ripreso a cadere la pioggia e s’erano accese le luci nell’immensa città, quasi una minuscola sbiadita copia di quell’immenso cielo stellato del Sud che la sovrastava. Eva, anzi Evita come ormai la chiamavano, sospirò. Non poteva far attendere più a lungo il suo Juan.
Non la notte, ma il sogno e l’azione ci liberano dalla prolissità del reale.