Grazie alle attente cure di Alberto Lombardo, uno dei maggiori studiosi dell’opera di Adriano Romualdi, le edizioni Arya di Genova hanno di recente dato alle stampe la silloge Scritti ritrovati, un testo indispensabile per avere una immagine la più completa possibile dello studioso forlivese. Si tratta infatti della raccolta di una serie di scritti romualdiani che vanno dal 1957 al 1973, alcuni dei quali del tutto inediti, usciti su varie testate, ossia Le corna del diavolo (un mensile studentesco edito a Roma), Il Conciliatore, L’Italia che scrive, Pagine libere, Il Cavour, La Torre, La Destra, per finire con L’Italiano.
Per entrare in argomento, credo che Lombardo, nel suo ampio saggio introduttivo, abbia ragione nell’indicare in Romualdi un pensatore dell’origine (p. 19), ossia un autore che si è posto con forza, in un momento storico-culturale dominato da ben altre idee ed atteggiamenti, oscillanti per lo più tra il nostalgismo e l’attivismo politico di corto respiro, il problema di andare alla ‘cerca’ delle origini del nostro continente; da qui l’interesse fondamentale per il mondo indoeuropeo; da qui, ancora, lo studio di due filosofi apparentemente poco conciliabili tra loro, vale a dire Platone e Nietzsche, ma accomunati proprio da una decisiva interrogazione sui momenti ‘aurorali’ della nostra storia; da qui, infine, la frequentazione di Julius Evola, non a torto ritenuto l’unico autore davvero ‘consonante’, per vicende personali, postura esistenziale e temi trattati.
Ora, sempre Lombardo (p. 20) nota come vi siano anche molte assonanze tra il pensiero di Romualdi e quello di Giorgio Locchi, in relazione a una pluralità di argomenti, a partire proprio da quello dell’origine indoeuropea. E d’altronde, una esplicita concordanza di vedute con la ricerca di Romualdi è stata riconosciuta dallo stesso Locchi, in un suo testo pubblicato in Definizioni. Si tratta di un punto a mio parere dirimente, e dunqueassolutamente da non trascurare, visto che scoprire queste affinità è la dimostrazione di come certe tematiche, quale quella dell’origine innanzitutto, mantengano una loro essenzialità al punto da legare pensatori tra loro molto diversi, per storia personale e lontananza geografica.
Ma tra gli argomenti che emergono dagli “scritti ritrovati”, ve ne sono altri di particolare importanza, che rendono questa silloge un documento prezioso, sia per meglio illuminare il percorso di Romualdi, sia per comprendere il contesto storico nel quale tali scritti sono ‘calati’. Ad esempio, in una serie di “Appunti per una morfologia del fascismo”, pubblicati su L’Italiano nel 1969, vien fuori una immagine del fascismo che ben potrebbe essere definita archeofuturista, seguendo le suggestioni di Guillaume Faye, là dove Romualdi scrive (p. 262) che il fascismo è una “sintesi di antico e nuovo”, ovvero un “rischioso tentativo di perpetuare lo spirito, il mito, i simboli di una tradizione primordiale in una armatura di vetro e d’acciaio”.
Articolo che spicca tra gli altri, e che tratta temi assolutamente cruciali per Romualdi, è quello intitolato Occidente e occidentalismo, uscito nel 1967 su Pagine libere. Innanzitutto, Romualdi distingue tra Europa e Occidente, ponendo appunto il nostro continente come “piano d’azione politico e ideale” (p. 183) in vista di una futura, piena sovranità europea di contro ai due blocchi contrapposti, individuando, fra l’altro, la genesi dell’Occidente proprio nella catastrofe europea dovuta alla seconda guerra mondiale. Il punto però è che l’analisi romualdiana, lucida e disincantata, non cede a vuoti slogan o a massimalismi irrealizzabili; da qui, la feroce critica al progetto europeo di Thiriart, definito “il patetico occhialaio di Bruxelles” (p. 184), che, auspicando la lotta contemporanea contro sovietici e americani, avrebbe prodotto come unico, reale, risultato quello di consegnare l’intera Europa al comunismo. Ecco perché Romualdi, pur rifiutando l’Occidente “nella sua versione liberal-democratica”, si riconosce in un “Occidente-schieramento” in grado di dar vita a “un fronte comune europeo e americano” che appunto avesse la capacità d’impedire “l’assorbimento della piccola Europa nello smisurato Lebensraum dell’Impero Sovietico” (p. 185), tanto da arrivare ad affermare che “il cardine di ogni politica europea” non potrà non essere “l’alleanza con gli Stati Uniti” (p. 189). Per cui, contro ogni “antiamericanismo patologico” (p. 194), e consapevole del fatto che “non si tratta di essere ‘occidentalisti’ o filoamericani” ma di capire che la liberazione dell’Europa poteva attuarsi, nel contesto segnato dalla guerra fredda e dalla logica dei blocchi, solo “sui presupposti della responsabilità e del realismo politico” (p. 194), Romualdi riconosce la necessità, pena l’evasione dalla storia (p. 192), di non inimicarsi gli Stati Uniti, in modo che persino una futura “Europa forte” potesse trovare con loro “una onorevole partnership” (p. 193). Interessante, al riguardo, è poi il richiamo di Romualdi all’operato di Cavour, che appunto muovendosi spregiudicatamente nel gioco delle grandi potenze europee, seppe garantire all’Italia la sua unità nazionale, andando anche contro le “anime belle” con la partecipazione all’impopolare (per l’opinione pubblica piemontese e nazionale) guerra di Crimea; da qui l’interrogativo, indubbiamente scandaloso per tanto radicalismo ‘di destra’: “chi sa se un Cavour dei nostri giorni, per strappare l’Europa dall’angolo morto in cui si trova, non manderebbe truppe europee nel Viet-Nam?” (p. 193).
Per chiudere, uno dei punti deboli dell’analisi romualdiana va però individuato proprio nel come lo studioso forlivese abbia pensato l’Europa del futuro, ossia come Nazione-Europa (pp. 237 e 262), ovvero, “come superamento dei vecchi nazionalismi in un nazionalismo di proporzioni continentali” (p. 183). Ora, a me pare che parlare di Nazione-Europa significhi, ieri come oggi, sacrificare le differenze che da sempre compongono il nostro continente sull’altare di un’astrazione. D’altronde, anche Evola, nelle pagine finali de Gli uomini e le rovine, aveva rigettato quest’idea senza tentennamenti: “non ci si può dire ‘europei’ in base ad un sentimento di tipo analogo a quello per cui ci si sente italiani, prussiani, baschi, finlandesi, scozzesi, ungheresi e via dicendo, e pensare che un unico sentimento di ugual natura possa stabilirsi, cancellando e livellando queste differenze e sostituendosi ad esse, in una ‘nazione Europa’”.