Riceviamo e pubblichiamo questo saggio di Curzio Vivarelli, dedicato alla recente riedizione in anastatica di Raâga Blanda, pubblicata da Edizioni Mediterranee, con saggi di Giorgio Calcara e Giovanni Canonico. Il volume e’ ordinabile qui.
Novembre. È un tempo ideale per leggere poesie. La nostra favella, così adatta a trasmettere immagini, si flette con grazia musicale a descrivere in brevi frasi dei quadretti pittorici che divengono pura sostanza poetica. Sostanza fatta di suoni che miracolosamente s’imprime nella memoria e poi ritorna quando meno ci se l’aspetta.
Eccone uno di questi quadretti. È tratto da Schizzi, questo il titolo che racchiude cinque brevi componimenti, ciascuno con il suo titoletto, che potrebbero persino sembrar dei Tanka o dei Sedoka giapponesi. Se non fosse che però qui il numero delle sillabe, entro il quale si contengono rigidamente i Maestri nipponici di tali poesie, allegramente deborda e la metrica si slega al costruirsi di immagini vividissime:
Vespro
Una finestra di soffitta sbadiglia. Un profilo stancamente maestoso di cattedrale sovrasta la città imbevuta di viola. Il cielo di un livore cianotico graffiato dalle rapide traiettorie fischianti delle rondini. Per le strade dei sobborghi larve nere, a distribuire frettolosamente luce ai lampioni.
Lo ho trascritto dalla novissima edizione di Raâga Blanda, un agile prezioso libretto di sole ottanta pagine, autore Julius Evola, che le Edizioni Mediterranee vollero ristampare colla tecnica della riproduzione anastatica dall’edizione che ne aveva fatto Vanni Scheiwiller nel 1969.
Scheiwiller era un amico molto giovane di Pound e, figlio d’un funzionario della gloriosa Hoepli milanese, pure lui d’origine svizzera come Ulrico Hoepli, si era gettato nell’editoria con l’entusiasmo degli adolescenti, aveva infatti iniziato a diciannove anni. Sotto lo sguardo assai perplesso del padre s’era invaghito dei reprobi e della letteratura ch’essi venivano componendo. Fu Pound subito, e poi con gli anni, venne Julius Evola, del quale Scheiwiller stampò, e ristampò da precedenti edizioni di altre case per le quali il nome s’era fatto ingombrante, Cavalcare la Tigre, Il Cammino del Cinabro, La dottrina del Risveglio et cetera. Ce n’era, in verità, di che inquietare, e come!, un babbo preoccupato per tale allinearsi di titoli…
Su questa novissima edizione evvi l’arricchimento del favoloso racconto di Giovanni Canonico, che nel 1968 conobbe Evola, con il quale condivideva anche la disciplina alpinistica, e cui il nostro filosofo chiese, se per la stampa in corso di Raâga Blanda, Scheiwiller potesse usufruire della tipografia romana di cui Canonico era proprietario. Il giovane editore, pure lui amico oltre che collega di Scheiwiller, acconsentiva di buon grado e di lì proseguiva una frequentazione che viene tutta raccontata nella bellissima postfazione al libro. Vi è in questo testo anche la storia della copertina, che fu disegnata da Evola medesimo.
Ho saputo poi per le solite vie confidenziali che Giovanni Canonico, appassionato di musica, ebbe una lunga frequentazione con Herbert von Karajan tramite l’astrologo personale del celebre e vanitoso Generalmusikdirektor della Filarmonica di Berlino. Son davvero dei bei ricordi che tornano e qui, molto per inciso, mi viene persino in mente di quando un direttore d’orchestra mi raccontò, seduto su d’una panchina a Bagni di Lucca, della disciplina ferrea che era stata imposta da Karajan ai suoi orchestrali. Ma lasciamo stare, e chiediamo piuttosto a Giovanni Canonico di raccontare e/o mettere per iscritto queste sue favolose memorie di vita…
Quanti fantasmi ci porta incontro la breve letteratura di Raâga Blanda! Per conoscere bene un luogo dobbiamo sempre incontrarne prima i suoi fantasmi, diceva Céline…
Ma torniamo al nostro libretto ed al quadretto con il Vespro. Se, come si dice, il dolce settembre è simmetrico del maggio, di che è simmetrico il nostro novembre assai carducciano? È marzo il suo simmetrico? Quasi sicuro, anche se in tali analogie dobbiamo esser molto elastici e procedere illuminati dal buon senso. Il cielo di ora è, qui in riva d’Adige, graffiato dalle maestose traiettorie di gabbiani, i cocai della tradizione veronese, e non dalle rondini. Le traiettorie non sono fischianti ma si ode di quando in quando lo stridere dei candidi volatori che vedi svolare in alto, incuranti del freddo che si fa più pungente di giorno in giorno.
Le giornate si accorciano, la brevissima estate del santo di Tours è già passata e si torna presto a casa dopo la passeggiata lungo viottoli costeggiati da filari di alberi nella campagna. Appena arrivati al sobborghetto distante duecento metri in linea d’aria dal cippo che ricorda la caduta di Umberto Boccioni da cavallo su quel fazzoletto di zolle, a pochi metri dalla strada ferrata del Brennero, si accendono i lampioni che illuminano flebilmente la via e le poche case. Non ci son più i poveri impiegati comunali con la palandrana nera che accendevano le lanterne a gas dell’illuminazione pubblica! Ecco nuovamente i fantasmi!… Ancora nel 1916, di quest’anno sono proprio le prime prove poetiche di Evola, in qualche sobborgo la luce colle lampade Edison non era arrivata e continuavano a funzionare i lampioncini a gas.
È novembre, torna il ricordo dell’ode carducciana
la nebbia agl’irti colli
piovigginando sale
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar
e quasi ispirato ai meravigliosi versi dell’ode notissima mi sembra un altro quadretto poetico del giovane pittore romano, non ancora divenuto il filosofo dell’individuo assoluto
Mare al pomeriggio
Una agglomerazione di nuvole basse s’impasta si divide si diluisce e rotea bigia e bianca proiettando tinte cangianti d’ombre e di luci sul mare supino. Il roseo e il grigioperla giuocano col verde vivido e il giallo stemperato sul gran fluido che tocca a caso le corde di un’arpa vellutata battendo piccoli gong contro la spiaggia dove l’onda stanca ha soltanto oro indolente e bave bianche a grandi catenarie. Se no, calma e silenzio.
Sembra ma forse non è, o lo è, ispirata, ma molto, di molto alla lontana all’ode del versiliano. Resta però che è bella anche la poesia di Evola, con il mare supino che s’è messo in questa posa a rimirare i giuochi delle nubi che cangiano forme, e luci, e colori. E ti colpisce il lento rifluire delle onde che spumeggiano a candide catenarie!
Di certo il poeta doveva essere qui su d’una delle alture che dominano gli arenili della Sicilia settentrionale per poter esattamente vedere le lunghe curve a catenaria che fanno le onde nel frangersi sulla distesa sabbiosa. Ma i ricordi dell’autore si incrociano con quelli del lettore e nell’agire poetico si confondono: Evola in un suo bell’articolo di giornale coniò una formula che mi restò impressa per il suo vigore: le “chiarità laziali”; e dalle dune costellate di pini marittimi che hanno a tergo la pianura pontina, luminosa e abbagliante, tu rivedi il fluire delle onde che con le loro creste spumeggianti disegnano le catenarie prima di lambire il paesaggio che fu caro al Bachofen ed al Gregorovius! Qui in una sola parola irrompe, prepotente, pure il futurismo che impone il termine preso dalla matematica e dall’ingegneria, dove le catenarie sono le curve che segnano l’andamento del coseno iperbolico sul piano cartesiano; ma questo irrompere prepotente è come un’onda che sembra quasi volersi frangere sul passatismo archeologico del giurista svizzero e dello storico prussiano…
E infine, per gli Schizzi, un notturno assai suggestivo
Notte
Una luna da tregenda rotola veloce sulla collina nuda fra nubi tragiche glauco latte rappreso su un nero cristallo. Il vento, o cavalleria cosacca, sciabola orizzontalmente sibilando la sua ira galoppante.
Un albero scuote a scatti convulsi da torturato la sua capigliatura.
Una croce nera immobile al sommo dell’erta.
Spogliata della metrica la scrittura e fidando solo nella prosa ritmica Evola cerca di condensare nel modo più esatto, in tedesco dichten, le proprie impressioni nutrite dallo sguardo attento e da una mente vigile. Tutto ciò ricorda tanto Pound quanto, più da lontano e senza i fronzoli futuristi, l’altrettanta volontà di precisione poetica che animò il nostro Carducci paesista.
Le poesie di Raâga Blanda si distendono nel tempo dal 1916 al 1922, quando, con la medesima determinazione di Arthur Rimbaud, Evola decise che non avrebbe più scritto poemi né avrebbe più dipinto. Un duplice proposito che in pratica è stato anche rispettato. Ma a me sembra che quando si scaccia la poesia, eguale sotto qual forma essa sia, dalla porta ecco che, in realtà, la poesia rientra dalla finestra. Per la pittura sappiamo da Evola stesso ch’egli a Roma negli anni Sessanta riprese a dipingere, non fosse che per rifare i dipinti che decoravano le sue pareti di casa ed erano stati venduti in una famosa esposizione del 1963. Ma dipinse anche vari quadri nuovissimi che erano belli e forse più belli ancora dei quadri di gioventù. Per una rinascita della poesia entro la scrittura di Evola si deve porre un poco più d’attenzione nella ricerca ma, con sorpresa, abbiamo il ritorno in meravigliosi passi di poesia in prosa negli scritti sulle ascensioni in alta montagna, e poi negli stupendi articoli di giornale con le descrizioni di gite in canotto sul mare nebbioso di Capri, di notti danzanti sull’isola celeberrima, le descrizioni dei paesaggi della campagna ungherese con le passeggiate a cavallo sotto il disco lucente della luna, i paesaggi viennesi e berlinesi. E dunque la scacciata poesia, che se n’era andata via, petrarchescamente poverella e sola, torna inattesa e torna davvero di prepotenza!
Le composizioni in Raâga Blanda sono ordinate dal loro autore com’egli dice “ad un dipresso” secondo la cronologia della loro composizione. Al lettore modernista, il cui gusto sia di già avvezzo alle mattane futuriste e poi dopo sia anche esercitato alle furie e alle parole insensate dei versificatori dadaisti, la lettura di queste poesie evoliane dovrebbe riuscire più che agevole ed anche fornire un appagamento estetico ed intellettuale. Al lettore passatista e carducciano ma anche baudelairiano e pure rimbaudiano serve invece un certosino lavoro di lettura e rilettura dei brevissimi testi. È un lavoro che può da principio dar dello sconcerto ma infine esso rivelasi fruttuoso. E qui occorre un suggerimento: si ponga mano ad un qualche libro di poesia giapponese oppure antico cinese. Si ripiglino in mano anche i Cantos di Pound o i saggi sulle poesie orientali del gran bardo americano. Oppure, se si vuol fare della sana autarchia ci si procuri quel bel librone, autori Guido Mazzoni e Paolo Emilio Pavolini, edito da Barbera a Firenze nel 1906, il cui titolo è Letterature Straniere con sottotitolo di Manuale Comparativo e si vada subito ai capitoli dedicati alle letterature cinese e giapponese, alle pagine 557 e 560. Colà vi si troveranno componimenti e poesie magistralmente tradotti, la cui espressione, netta, elegante, ma ellittica, ovvero stringata a sommo grado, può rammentare quelle gemme che si rinvengono nei poemetti evoliani, intermesse talora alle iperboli futuriste, talaltra ai giuochi di parole che scivolano verso semplici evocative eufonie.
Inutile a questo punto ragionare troppo per teorie e val più di sceglier qualche esempio per documentare nei limiti del possibile quanto s’è tentato di comprendere e ordinare. Nell’esempio seguente, dal lungo poemetto il cui titolo è Tema e Variazioni estraggo questa gemma singolare
della porcellana bianca una bottiglia di cristallo sulla tovaglia candida al sole del mattino
Ecco disegnata una natura morta da quadro novecentista, francese o italiano; le parole dànno corpo agli oggetti, la mente ricrea, nella visione, la stanzetta con il tavolo, e la finestra aperta in un mattino di primavera con il sole che irradia il tavolino, fa splendere la tovaglia, fa brillare di colori iridescenti la bottiglia di cristallo!
Il poemetto prosegue e l’immagine precedente si compie in quella seguente
sotto l’acqua vitrea s’impastano lentamente le molli morchie verdi della palude e un rombo si avvicina
e si vedono, poco oltre la finestra, nel lavatoio della via o del giardino, foglie verdi cadute in acqua e marcescenti lentamente, mentre di lontano un temporale si annuncia. Più oltre nel medesimo poema c’è un’immagine che chiudendo il testo si fa enigmatica
ma una chitarrata grottesca su un paesaggio cupo da Zuloaga ad una larva che ora indossa un manto vermiglio
forse che apparve, ora, una figurina lontana, ingobbita dalla fatica o dagli anni e coperta dal manto rosso? Il paesaggio, per esser visto, ovvero ricreato nella mente, forza il lettore ad una breve fatica documentaria: qual è lo stile caratteristico dei paesaggi di Ignazio Zuloaga y Zabaleta?
Ci può soccorrere l’enciclopedia italiana per una succinta biografia ma conviene munirsi anche d’un bel catalogo per rimirare le opere di questo pittore, celebrato da vari storici come l’ultimo dei grandi pittori di Spagna. I paesaggi di Zuloaga sono molto belli, non esibiscono certo la Spagna delle cartoline pubblicitarie per l’estate ma colpiscono per i villaggi aggrappati sulle erte e sovrastati da cieli grigi e perfino neri: l’aggettivo cupo usato da Evola è preciso.
Si è detto della vigorosa germanofilia di Julius Evola ma forse la cosa per essere affermata esige qualche sfumatura in più: Evola scriveva un buono e forse ottimo tedesco, fa fede a ciò il corposo epistolario ch’egli scambiò con gli Spann e lo Heinrich e vari altri corrispondenti che si conoscono dalla sua biografia, ma Evola sapeva ad un grado adeguato anche il francese e appunto in questa lingua sono composti alcuni poemi di Raâga Blanda. Ecco un paio di gemme estratte dal poemetto Astrid, il cui incipit è nitidissimo
L’élan de cette colonne dorique dans le gazon du cloître
ovvero, voltando in italiano e aggiungendo qualche fronzolo: «lo slancio di questa colonna dorica poggiata sul manto d’erba del chiostro». Non abbisogna di commentario, l’immagine è perfetta e conchiusa nelle scarne parole. Un veronese va subito con la mente al chiostro del Duomo, presso l’antica biblioteca Capitolare, dove già Pound, negli anni Venti, studiava i codici con i poemi del Cavalcanti e si son conservate le schede dell’imprestito sulle quali egli annotava alcuni pensieri: il chiostro ha un lindo mantello d’erba sul suo quadrato e nel centro di quest’ultimo evvi un pozzo sul cui orlo son poggiati alcuni vasi con dei gerani rigogliosi. Fiori radianti rosso su erba verde. Non c’è una colonna dorica ma gli occhi la vedono egualmente: qui la gemma poetica è un esempio del foscoliano «suono che crea»…
Più sotto la bella Astrid, appare in qualche tratto e ha i capelli chiari
L’incendie blond de vos cheveux c’est la lumière de ces petites lumières lointaines
oh! ma ecco che nella vertigine della dedica poetica e retrospettiva all’aggraziata creatura femminile fa capolino un’istante di distacco e che solleva
Un cygne passe parfois dans la nuit étoilée
Astrid ha la fronte alta e bianca che è vasta cornice per far risaltare la luce blu dei suoi occhi
L’hauteur de votre front blanc appelle l’acier de vos iris sous l’onde de vos mèches d’or
ma chi era Astrid?… era forse, o meglio è lei adesso un’immagine, un ricordo lontano, un sogno nitido?
Étiez vous Astrid?
eri tu Astrid? Oltre non sappiamo. Solo un nome e forse nemmeno una scarna biografia. Ma si intuisce che Astrid è stata: se il poemetto è ristampato nel 1969 ciò ha una propria ragione interiore.
Nel 1919 il sottotenente Evola sembra fosse distaccato con l’esercito italiano in quel di Innsbruck. Forse l’accasermamento dei soldati italiani ha avuto luogo in un ospedale perché vi è una dettagliata ed ermetica poesia il cui titolo è Respiro ed in essa l’atmosfera è quella di neve che cade e ne viene osservato il fioccare lento dalle ampie finestre d’un ambulatorio
Una sera lunare porteremo agli artici: ieri si videro i dondolanti passaggi di marinai due occhi immensi si erano spalancati per un attimo finestre. ma non spereremo l’azzurro. vita legnosa fra la gibbosità di stufe
tra i marinai e i soldati, ora prigionieri, probabilmente Evola ne vide uno i cui occhi gli rimasero impressi. Era, costui, il soldato che il filosofo ritrasse nel disegno intitolato Prigioniero austriaco e del quale sappiamo che veniva dalla lontana Bukowina? Evola mai ha fatto mistero del suo pensare che quella maledetta guerra, così dannunzianamente invocata dai visionarî e dichiarata poi da dei politici con inclinazioni malthusiane (il Duce del 1944, ne Il tempo del bastone e della carota, lo afferma coraggiosamente…), avrebbe dovuto veder l’Italia entro la Triplice Alleanza e non contro i due imperi centrali, alleati fino a pochi mesi prima del maggio 1915. Un pensare che causò al giovanissimo poeta e pittore uno strano miscuglio di curiosità e risentimento nei suoi precipitosi amici futuristi, primo fra loro Marinetti, e ancora oggi suscita perplessità. Una perplessità che non ha più ragion d’essere, almeno fra i lettori più attenti e obiettivi, già dal 1966 quando Piero Buscaroli pubblicava una disamina dura ad udire ma ben documentata, e costituita d’una serie di formidabili articoli apparsi sul settimanale il Borghese a titolo Anatomia d’un intervento (che oggi si leggono nel libro di Buscaroli La vista l’udito e la memoria riedito da Bietti in Milano). Da essa disamina si conosce che vi fu anche un “interventismo” in senso “triplicista”, e ad esso non è che aderissero delle intelligenze scarse, e vi fu un “neutralismo” assai più benevolo nei riguardi delle potenze centrali che non nei riguardi delle ipocrisie dell’Intesa e vide tra i partecipi un Giolitti ed un Croce…
Nella prefazione a Raâga Blanda del 1969, Evola avvisa il lettore che i suoi poemi attraversano le varie fasi dei movimenti europei più in voga fra il 1916 ed il 1922, ovvero, «a parte alcune non rilevanti incidenze futuriste», essi attraversano decadentismo, simbolismo, analogismo venendo a ultimarsi nella composizione “astratta”, la quale è costituita pure di fonemi inarticolati e accordati in vario modo. In Due Canzoni Dada trovansi, in forma di frammenti d’un’ipotetica nuova lingua, questi curiosi fonemi
zarda jansh
jask er daa
glein daa
ma non sono affatto i soli. Il lettore carducciano svezzato dai robusti versi dei
cipressi che van da San Guido
a Bolgheri in duplice filar
scuote il capo sorridendo ma non è affatto ostile a questi nuovi suoni, egli rammenta infatti il tandaradei che ricorre nella meravigliosa
Úndèr den Linden
an der Heide,
dâ unser zweier Bette was
di Walther von der Vogelweide, oppure rammenta il vtt videvtt delle rondini nel Pascoli che le osserva volteggiare nel cielo azzurro sopra la Pània dal suo romitaggio garfagnino. Bisognerà aspettare: se tali nuovi fonemi troveranno il loro Omero o il loro Leopardi eccoli che diverranno cittadini dell’alta poesia. Per questi fonemi Evola è forse stato il Bonagiunta Orbicciani del Purgatorio Dantesco: un lontano e obliato precursore che indica un futuro stile…
Sono alcune le parole d’altre favelle, in specie francesi e tedesche, che ricorrono in Raâga Blanda, e sei sono le poesie composte interamente in francese. Da queste, estrarne immagini radianti è un lavorìo più lento, occorre una lunga serie di riletture e studî donde comprendere anche la provenienza di suggestioni e riferimenti a testi letti dall’autore. Qui ed ora estraggo una coppia fantastica ed evocativa che mi riporta a Saint-Malo, sulle mura a picco dell’arenile donde, a poca distanza, vedesi, staccato d’un braccio di mare, l’isolotto colla crocetta che segna il sepolcro di Chateaubriand: la crocetta si vede distintamente anche a occhio nudo. Passeggiando avanti e indietro su queste mura, dinanzi al mare, avendo alle spalle ben riparata la città bretone, s’incontra ad un certo punto la statua di Jacques Cartier, l’esploratore del Canada, colla spada sguainata che indica il mare. A chi cammina fanno compagnia continua dei poderosi gabbiani, più goélands che mouettes. Il francese offre due parole per il nostro gabbiano, che a stento è sostituibile da un letterario “lari”, dal greco laròs, o da un dialettale cocai che per quanto di nobile origine ellenica è sensato solo nelle poesie di Berto Barbarani o dei suoi alunni poeti, veronesi o padovani. Goéland, parola d’origine gallica, è il possente volatore delle coste atlantiche, mentre la mouette è tratta dal germanico, Möwe in tedesco, e indica più un gabbianello di fiume.
Dunque al camminatore delle mura i possenti goélands che stridono e schivano, in volo radente, i tetti grigi della città rammentano due bei versi altrettanto in color metallico del Poème-Assurance dedicato ad una pittrice britannica
à present
mouettes dans les couloirs d’acier
e poi
les mouettes deviennent furieuses dans les couloirs d’acier
i gabbiani s’infuriano nei corridoi d’acciaio; ed è ciò che avviene proprio lungo la passeggiata sulle mura battute dal vento atlantico: i gabbiani si rincorrono urlano picchiano planano ed il cielo grigio solcato dalle nubi e i tetti altrettanto grigi delle case presso le mura “sono” i corridoi d’acciaio…
Decisamente la breve raccolta di poemi evoliani è ricca di continui rinvii e di perenni suggestioni di vasti paesaggi. Se non si adatta troppo ad un lettore provinciale dedito a letture acquietanti e alle poesie alla Guido Mazzoni non è per questo che essa sia più adeguata all’estenuato cultore degli estetismi futuristi o dadaisti o astratti. Anzi, quasi quasi dette poesie sono, in fondo, assai più intelligibili al Guido Mazzoni, e dico ciò ben consapevole della Stroncatura che Papini dedicò al poetino familiare Guido, quando gli si affianchino maestri come il Carducci e il poderoso apparato di conoscenze di poesie antichissime e mitologiche et cetera di un Paolo Emilio Pavolini.
E sono vasti paesaggi dunque, e strani inviti immaginosi come in Tremava Disgusto, dove ad un ipotetico lettore appare un quadro di stupefazione e di poesia che vorrei dire implicita
gli occhi si accesero nel teatro deserto
la corazzata sogna e si inabissa
la corazzata è affondata dunque e persino
l’idolo sorride e le selve si contessono frenesia egli scopre duemila tam-tam in agguato i navigli salpano e i continenti
i navigli salpano e i continenti: sembra quasi che il giovane poeta del 1922 preluda ai paesaggi che si sentiranno connaturati in Cavalcare la Tigre: i deserti infuocati dalle tempeste di sabbia, le ghiacciaie artiche e wagneriane che scendono a picco sul mare gelido, i monti altissimi che si levano in solitudine.
Il novembre della pianura veronese dopo giornate fredde e luminose di sole è ora grigio. La passeggiata per la campagna che costeggia la bella lanca di acque atestine, a breve distanza dal ponte ferroviario, offre agli occhi il panorama dei monti Lessini levati e violacei oltre i filari di alberi dal fogliame rugginoso. Più lontano la punta del Monte Gu, nominato da Carducci nel poemetto a Sirmione, fa capolino dalla sua regione bresciana oltre il lago. Più prossimo il monte Pastello con, a tergo, le due punte del Corno d’Aquilio e del Corno Mozzo Nel cielo plumbeo vedesi la bella sagoma d’un gabbiano che svola per dileguarsi. La foschia avvolge il monte Baldo.