“Après nous le déluge”, dopo di noi il diluvio: questa frase, tragica metafora meteorologica attribuita a Luigi XV e alla sua favorita, M.me de Pompadour, dopo la sconfitta di Rossbach contro le armate di Federico II, suona come profezia apocalittica non tanto e non solo di un regnante, ma di tutto un mondo. Non stupisce perciò che il regista napoletano Gianluca Jodice vi abbia fatto allusione nello scegliere il titolo del suo nuovo film, dove si narrano gli ultimi mesi della coppia Luigi XVI e Maria Antonietta, rispettivamente interpretati da Guillaume Canet e Mélanie Laurent; una parabola biografica, storica e di civiltà raccontata con proprietà di linguaggio cinematografico.
Nei decenni passati, non sono mancate pellicole di qualità che ci hanno raccontato questo o quell’aspetto della Rivoluzione Francese, da “Il mondo nuovo” di Ettore Scola a “Danton” di Andrzej Wajda, fino al più recente “Maria Antonietta” di Sophia Coppola; ma questa di Jodice è un’opera che va segnalata per la sensibilità e l’abilità con cui il regista ha saputo intrecciare i toni di una vicenda intimistica, qual è stata quella della coppia reale, con quelli, tragici e asciutti, di una svolta storica nel declinante cammino meno di un “Régime” che non di una civiltà.
Tale gradualità si manifesta fin dalle prime sequenze, quando vediamo il Delegato alla Giustizia di Parigi passeggiare da solo in una stanza e ripetere più e più volte, per mandarla a memoria, la formuletta “Libertà, Uguaglianza e Giustizia” (quest’ultima poi sostituita da Fraternité), da snocciolare nel discorsetto di accoglienza della piccola corte di Luigi, arrestato nel suo tentativo di fuga a Varenne. Dicevo della gradualità di un processo che sarebbe sfociato nel patibolo di place de la Révolution: qui il sovrano, in una scena cinematograficamente molto efficace, viene aiutato a scendere da una sontuosa carrozza e viene accompagnato da una delegazione della Convenzione, con modi certo severi, ma non esenti da una certa deferenza, nell’alloggio provvisorio destinato a lui, ai familiari e a un piccolo gruppo di cortigiani.
Ben presto, le cose cambiano: tutte quelle persone dovranno arrangiarsi per passare la notte in una specie di enorme corridoio privo di letti, ma illuminato da molte candele, che però dopo la frugale cena, dovranno essere tutte spente. Al mattino, ci sarà la prima, dolorosa separazione: dopo l’accurata vestizione dei reali ad opera della servitù, sarà permesso un solo valletto – quel Clery ai cui diari s’ispira la sceneggiatura – mentre il resto della corte andrà a conoscere i nuovi, ben più squallidi ambienti scelti per la separata custodia cautelare (“per la vostra sicurezza”, affermano gli ufficiali della guardia rivoluzionaria). Particolarmente sofferto dalla regina il commiato dall’amica del cuore, la duchessa di Lamballe, con la quale appena poche ore prima chiacchierava della sua relazione con il conte Fersen e, con una vera di amaro pessimismo, dell’improbabilità di un intervento a suo favore della madre, l’imperatrice Maria Teresa. Così, dapprima riconosciamo in Maria Antonietta la giovane donna fatua e infedele, ritratta da Sophia Coppola (e da storici quali Jules Michelet), poi cogliamo un baleno di maturo realismo, nella previsione di un futuro cupo per le sorti della Monarchia e loro personale.
Non mancano episodi che rivelano l’ingenuità di questi personaggi, coinvolti in vicende epocali di cui non sono certo i principali responsabili (per fortuna, ci viene evitata la ripetizione della frase attribuita alla Regina – “Non hanno pane? Che mangino brioches!” – una delle prime falsità trasmesse dalle voci di popolo e fatta propria dagli storici superficiali); ad esempio, Maria Antonietta si chiede: “Uguaglianza? Che significa?”, anche questa forse non vera, ma significativa.
Quanto ai rapporti fra i coniugi reali, viene confermata la disposizione d’animo di Maria Antonietta, che verso il marito non nutre alcun sentimento – e meno ancora alcuna passione – limitandosi a esprimere per lui una grigia stima: “E’ un uomo onesto”. Quest’uomo, vedremo, saprà invece esprimere sentimenti di sincero affetto per i figli e per la moglie, adottando per di più la regale dignità di un sovrano, quando gli verrà comunicata la condanna a morte, con esecuzione per il giorno dopo, e gli verrà rigettata la richiesta di rinvio di tre giorni, per prepararsi adeguatamente.
Nel frattempo, la situazione precipita, sia nella dimensione pubblica – viene brutalmente comunicata la sconfitta degli eserciti legittimisti ad opera dell’Armée repubblicana, nella battaglia di Valmy – sia in quella privata, dove all’arroganza un tempo impensabile si aggiunge l’orrore: in una delle sequenze che meglio descrive questi mutamenti, un inserviente chiede timido ed ossequioso a Luigi di guarire un suo amico, col volto coperto di scrofole; era infatti una credenza consolidata – e che si protrarrà fino al regno di Carlo X, a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo – quella del potere di guaritori dei sovrani, specie francesi e inglesi, data l’origine divina della loro autorità. Come un’esplosione nella notte, mentre Luigi, timidamente accondiscendente, impone le mani sul volto sfigurato dello sventurato, quest’ultimo si toglie il trucco grossolano e si abbandona, con i suoi compari, ad una grassa risata. Per rendere con la migliore evidenza la portata dei cambiamenti, basterà riandare alle immagini, alle atmosfere, ai dialoghi improntati, tutti improntati alla più smaccata frivolezza ed al più vuoto formalismo, fedelmente riportati nel film di Patrice Leconte, ambientato appunto nella corte di Versailles.
Davvero peggio doveva andare alla sventurata Maria Antonietta, convinta a ricevere una delegazione di popolani: una di queste megere emaciate doveva tirare fuori da un sacco, portato lì come un macabro dono per la regina, la testa mozzata della duchessa di Ramballe (unico momento, in cui la regola della sobrietà trova la sua pur necessaria eccezione, nel segno del grand-guignol). E’ ormai caduto ogni cascame del residuo rispetto per la Corona, sul terreno “privato”, mentre in parallelo con la proclamazione della Repubblica da parte della Convenzione, cade la Monarchia, sul terreno pubblico. Così, al “cittadino Luigi Capeto” vengono tolti nastri e onorificenze, ma alla ex-Regina, ancora una volta, va peggio: priva di parrucca e trucco, ingrigita nei capelli e nel volto, che pure conserva l’espressione di un residua, tragica dignità, negozierà con il capo dei carcerieri, che la sottoponeva ad un’esplicita pressione, la concessione di un rapporto intimo, in cambio della salvezza dei figli.
A questo punto, mi è passato davanti agli occhi della memoria lo scenario allestito nel museo delle cere all’interno della Conciergerie, luogo storico delle ultime fasi della prigionia di Maria Antonietta, e sono certo che tanto il regista che il suo direttore della fotografia Ciprì a quello si sono ispirati, per riprodurre i grigi cupi che dominano nel film.
Da ricordare ancora, a riprova dell’innocenza dei sovrani, chiamati a rispondere con la vita di responsabilità storiche ben aldilà delle proprie lacune e colpe personali: il colloquio di Luigi col boia Sanson, al quale chiede i dettagli della sua biografia e della stessa pubblica esecuzione; e quello di Maria Antonietta col valletto Clery (“Dove andrà dopo? In una casa? Ma non è piccola? E sua moglie cosa fa?” e, alla risposta del valletto, “E’ difficile fare le pulizie? E cucinare?”). Inutile dire poi che il congedo da moglie e figli, dai quali era stato separato da tempo, l’ex-re non ricorda minimamente la figura di Ettore che si congeda da Andromaca: Luigi, si sa, aveva più dimestichezza con gli amati orologi che non con le armi.
La fine è nota, ma coerentemente la sceneggiatura non ci mostrerà il maestoso corteo, con le tricoteuses a sferruzzare intorno al patibolo, al canto della Marsigliese (tranne le sequenze iniziali, girate sotto un cielo carico di nubi, fra le residenze savoiarde di Stupinigi e Venaria Reale che fingono i complessi della Tour d’Argent e della Conciergerie, il film si svolge tutto in interni). Intanto, il Mondo Nuovo nasceva non già nelle acque del diluvio, ma nel sangue, dopo che la Rivoluzione ghigliottinato migliaia di francesi e aveva divorato i suoi figli, per cedere il palcoscenico all’Imperatore laico e, via via, ai nuovi orrori del Novecento e alle democrazie traballanti di oggi.
Bella recensione. Complimenti!
E la dottrina della monarcomachia dove è rimasta?