Tokyo, 25 novembre 1970. Un ineluttabile destino minuziosamente costruito da una vita si compie. L’aquila del Giappone piomba per l’ultima volta in quella società nipponica ormai divenuta borghese, squarciandola come fulmine. Come suo solito fare. Lui, Yukio Mishima, ultimo atto di una vita dirompente tesa alla bellezza e allo spasmo.
Poeta, letterato, artista poliedrico, marzialista. Esteta dell’Assoluto. La penna in una mano, la katana nell’altra. Il libro che segue il passo della cultura fisica e viceversa. Sole e acciaio, lo spirito che si incarna e diventa azione, fuoco, nella bronzea ed ellenica forma del corpo. Ultimo ed autentico samurai, custode di una nobile Tradizione che tende alla verticalità.
Mishima prende in mano la Storia e scrive l’ultima pagina del romanzo della sua vita. Insieme a quattro suoi fedelissimi del Tate No Kai, sua personale milizia, entra per un colloquio nell’ufficio del generale Mashita. Sa di avere un’unica, sola, possibilità. La responsabilità di ciò che sta per accadere è solo sua. Non c’è margine di errore. L’arco teso da una vita sta per scoccare la freccia di quell’unica azione, di quel voto sacrale fatto a se stesso, nella piena consapevolezza che “una promessa può essere qualcosa di vago, fino all’istante in cui entra in gioco il concetto di lealtà”.
Inaspettatamente sequestra l’alto graduato legandolo alla sedia e balza fuori dalla stanza sul balcone, ritto, fiero. A lanciar la sua sfida alle stelle. Divampa e straborda l’ardore del suo io nietzscheano. Ha inizio un appello alla rivolta contro il mondo moderno arrivato nel Sol Levante a suon di bombe atomiche e capitale. Un mondo yankee prepotentemente impresso a suon di diktat nella Costituzione giapponese del 1947 e nel Trattato di San Francisco. Un vero e proprio corpo estraneo alla civiltà dell’Imperatore e dunque al patriottismo del “Vate d’oriente”.
Sotto di lui i militari della caserma, un po’ attoniti, un po’ irridenti. Figli di una società bolsa, americanizzata, tronfia di ipertrofico consumismo e progressismo.
Tuona il “figlio di Amaterasu”: “Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della Storia e delle Tradizioni che amiamo”.
Mishima. Ultimo, eterno atto. L’appello non produce effetto alcuno. Rientra nella stanza del generale e compie l’estremo rito. Il seppuku del samurai. Il fiore di sakura, bello e caduco, guarda la morte in faccia. L’attraversa come punta di una katana e fa della sua esistenza eternità.
Il suo lascito morale rimane oggi più attuale che mai. Le sue “Lezioni spirituali per giovani samurai” sono delle vere e proprie boccate d’ossigeno nella noia asfissiante del dominio del dollaro e della connessa dittatura del politically correct. Un rifugio sicuro, a tratti inviolabile, per animi d’altri tempi che non si arrendono alla banalità di questi anni di plastica. Rileggere i suoi scritti oggi è come armarsi di Kultur, bucare la cappa del pensiero unico per stagliarsi in alto verso più nobili terre.
Così nel suo ultimo biglietto: “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”.
Moriva quel giorno di cinquantaquattro anni fa Yukio Mishima, all’età di quarantacinque anni, nel pieno del vigore fisico. Come lui voleva, martire della bellezza. Estetica guerriera.
Moriva ma oggi è ancora lì, granitico, a consegnare alla Storia l’immagine del suo corpo privo della deturpazione del tempo, in una geometrica e metallica forma. Sì, Yukio è ancora lì nonostante tutto, lui ed il suo spirito. Ribelle. Indomito. Invictus. Che corre incontro a quel suo perenne Sole per raggiungerlo, divenendo indivisibile con esso. Questa volta con la ferma volontà di vivere. Come lui voleva. Per sempre.
La società giapponese non è diventata ‘borghese’ per la sconfitta del ’45, ma per l’ottocentesca rivoluzione (o restaurazione) Meij, che ha occidentalizzato quella dei samurai, del Bushido ecc. tanto cara a Mishima. Inutile far poesia, teatro ecc. sui sogni, sulle cose passate, e forse un giorno Mishima se ne è reso conto ed ha pensato al Beau Geste di stile dannunziano, in fondo, anche se D’Annunzio credeva assai meno a quel ch’egli stesso diceva e scriveva su patria ecc… (poi ci sarebbe la storia del riscatto etico per via della omosessualità, ma sarebbe un discorso forse fuorviante più che estetizzante)
Nella società feudale, quella che finisce molto più tardi che in Europa a causa dell’isolamento del Giappone, rimpianta da Mishima, c’erano samurai e bushido, ma non c’era la ‘patria’, che è sostanzialmente prodotto europeo della Rivoluzione francese e del romanticismo. Anche da noi la Patria fu un’invenzione letteraria e risorgimentale, più che un sentimento realmente diffuso e radicato. Poi sarà il sangue versato (purtroppo inutilmente) nella Grande Guerra a forgiare il grande mito degli eroi, dei caduti, dei mutilati, degli irredentisti, del Milite Ignoto ecc. La fedeltà secolare era stata per secoli verso la Chiesa (il vescovo o il parroco) ed il ‘signore’ della contingenza storica, Re, duca, conte….Pensiamo al Monferrato, a quante volte passò di mano, ad esempio…Attenzione a non confondere le cose.