C’è un filo unico a segnare le diverse “stagioni” politiche e culturali che hanno caratterizzato l’esistenza di Luciano Garibaldi, scomparso, a Milano, all’età di 88 anni: il filo del rigore, della serietà professionale, non disgiunto però da un anticonformismo inusuale nell’Italia degli Anni Sessanta-Settanta.
Giovane allievo, dalla prima alla terza media, dei Padri Scolopi dell’Istituto Calasanzio di Cornigliano (popolare quartiere di Genova), iscritto all’Azione Cattolica e alla Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI), Garibaldi era stato, all’età di 17 anni, segretario della Federazione Provinciale Giovanile di Genova del Partito Nazionale Monarchico, distinguendosi, nell’allora rosso capoluogo ligure, per il suo attivismo anticomunista. Mitici i cortei, che lo videro tra gli organizzatori, alla testa di migliaia di studenti, uniti, al di là delle diverse sigle d’appartenenza, nella lotta patriottica ed anticomunista, all’assalto del Consolato della Gran Bretagna, Paese responsabile del massacro dei giovani patrioti triestini, impegnati a rivendicare l’italianità della Venezia Giulia, e della Federazione Provinciale del Pci, di simpatie titine e colpevole di non volere esporre dalla propria sede il tricolore al posto della bandiera rossa.
“Fu in quel momento – scriverà in seguito Luciano Garibaldi (Sergio Pessot e Piero Vassallo, A destra della città proibita – Genova – Quelli che non si arresero, ASEFI, Milano 2004) – che nacque, in molti della mia generazione, il cosiddetto ‘anticomunismo viscerale’. Il comunismo era infatti l’antinazione, la personificazione dell’asservimento ad una potenza straniera e sopraffattrice della libertà, il ricordo di una intollerabile violenza fratricida. In noi, diciottenni e ventenni di allora, giocava pesantemente l’eco recentissima dell’ondata sanguinosa che aveva travolto il Paese all’indomani della guerra civile”.
Quella passione giovanile continuò a segnare, senza soluzione di continuità, tutta la vita professionale di Garibaldi, approdato, nel 1957, al giornalismo professionale, attraverso il settimanale “Tempo”, poi presso il “Corriere Mercantile” di Genova, inviato speciale di “Gente” dal 1969 e nel 1974 entrato a “il Giornale” di Indro Montanelli. Divenuto caporedattore centrale di “Gente” nel 1976, Garibaldi nel 1984 ricoprì lo stesso ruolo nel quotidiano “La Notte”. Per poi collaborare, dal 1986 al 1994, alla terza pagina di “Avvenire” e tra il 1992 e il 1995, in qualità di editorialista, a “L’Indipendente”, ancora a “il Giornale” e, in seguito, a “Studi Cattolici”, “Storia in Rete”, “Storia Verità”, “Il Sussidiario” e “Riscossa Cristiana”. Un cursus honorum, sulla “carta stampata”, di tutto rispetto, che – ci auguriamo – venga valorizzato e riportato all’attenzione, affiancato da decine di libri di storia, prevalentemente centrati sul fascismo, il nazismo e la seconda guerra mondiale. In ogni testo il “marchio” indelebile del giornalista, curioso, indagatore, dalla scrittura immediata, ma sempre documentato ed anticonformista.
In questa lunga lista: Mussolini e il professore. Vita e diari di Carlo Alberto Biggini (Mursia, 1983) dedicato al sodalizio tra Benito Mussolini e Carlo Alberto Biggini, giovane rettore dell’Università di Pisa, intellettuale impegnato a ricostruire culturalmente la continuità storica tra Risorgimento e fascismo e ardente propagandista dell’idea corporativa e del superamento della lotta di classe; La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci? (Ares, 2002) impegnato a ricercare chi avesse veramente ucciso Mussolini e Claretta Petacci: non i partigiani del CLNAI, ma un commando dello Special Operations Executive (SOE) britannico per ordine di Churchill, che intendeva porre una pietra tombale sui suoi rapporti col duce in funzione antisovietica; I giusti del 25 aprile. Chi uccise i partigiani eroi? (Ares, 2005) dedicato alle figure di Aldo Gastaldi, Ugo Ricci ed Edoardo Alessi, già ufficiali del Regio Esercito, partigiani, uniti da una comune e intensa fede religiosa e ispirati da un progetto di pronta riconciliazione nazionale, morti in circostante a dire poco oscure, visti gli interessi dell’ala sinistra della Resistenza a fare sparire le loro presenze scomode. Ed ancora, tra storia recente ed attualità politica, i due libri sugli “anni di piombo”, dedicati al giudice Mario Sossi, rapito dalle Brigate Rosse, e al commissario Luigi Calabresi, assassinato da Lotta Continua.
Di queste storie, tanto diverse tra loro quanto complesse, Garibaldi seppe farsi carico, alimentando quello che egli stesso definì, una sorta di “fiume carsico”, rappresentato da intellettuali, giornalisti, studiosi anticonformisti, “che, per decenni, ha continuato a scorrere da qualche parte, misteriosamente, e che è tornato quasi misteriosamente in superficie (per la verità ancora un po’ frastornato, disilluso, scettico, sostanzialmente incredulo e soprattutto disgustato alla vista della marea di vontagabbana all’arrembaggio del potere) in occasione della grande svolta tuttora in corso”. Era il 2002: allora Garibaldi lanciò questo suo appello-testimonianza mettendo a disposizione la sua cinquantennale esperienza e la sua giovanile determinazione. Senza facili nostalgismi – sia chiaro – ma nel segno della pacificazione e di una visione della Politica come servizio alla Nazione. “Questo era (ed è, essenzialmente) – notava sempre il nostro – la Destra. Quella vera, quella nobile, quella etica”.
Di quelle indicazioni provammo a farne buon uso, all’interno dei nuovi assetti politici dell’epoca, in una Regione Liguria governata per la prima volta dal centrodestra, bene sostenuti dall’esempio e dal valore di una pattuglia intellettuale che schierava, insieme a Luciano Garibaldi, gli ex giovani della Genova del ’53: Domenico Fisichella, Piero Vassallo, Giano Accame, Mario Sossi, Gianni Madeo, Cesare Viazzi, Sergio Pessot, dispersi a causa delle diverse esperienze professionali e di vita , ma ben saldi a richiamare identità e valori etici che avevano segnato i loro anni giovanili e di cui ancora oggi si sente un grande bisogno. La scomparsa di Luciano Garibaldi, oltre alla sua biografia, alle sue opere e al suo esempio, anche questo ci consegna: il valore di una memoria e di figure a cui guardare e da rivendicare con orgoglio. Senza complessi d’inferiorità.
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