Gianfranco Chiti appena quindicenne, un ragazzo, entra nel collegio militare di Roma e poi all’Accademia di Modena. Ne esce nel 1939: è un guerriero. La Storia, una bella signora anche se d’età, non lo perde di vista. Pronta ad adescarlo, nel caso, con promesse di gloria. È perplessa perché lui ha delle convinzioni insolite per un uomo d’armi, è molto religioso, votato alla Madonna. E la scelta di una vita militare la considera una scelta di carità. Un cocktail anomalo. Ma la Storia ha esperienza, sa che lo avvinghierà con le sue fascinose spire e sarà suo. Gli umani sono tutti sue vittime, quasi si diverte. Si divincolano un po’ ma dopo cedono. O per le sue lusinghe o le sue imposizioni.
Al giovane tenentino impaziente offre un antipasto abbastanza lieve. Lo manda in Slovenia a rintuzzare la guerriglia iugoslava e lui ne ritorna ringalluzzito, con un’ambita croce di guerra al valor militare.
Operazione Barbarossa
Ed ecco il piatto forte: la campagna di Russia, l’operazione Barbarossa. Nel 1942 il Tenente Gianfranco Chiti parte con il battaglione controcarro “Granatieri di Sardegna”. Sul Don esprime subito la sua valenza e viene decorato con una medaglia d’argento. La motivazione: “Comandante di un plotone di cannoni, esaurite le munizioni si metteva alla testa di un gruppo di animosi e attaccava…” Ma ahimè ben presto le sorti del conflitto cambiano.
Gli alpini affermano che la colpa è stata degli ungheresi. Hanno ceduto le posizioni e i sovietici hanno sfondato il fronte. I generali tedeschi invece la imputano al ritardo del corpo di spedizione italiano. Ognuno cerca una giustificazione ma il danno è fatto. Come l’avanzata è stata bloccata e sono rimasti imbottigliati è giunto il “generale inverno”. L’odissea di Napoleone l’avevano dimenticata. E i russi erano soverchianti e meglio equipaggiati.
L’Armata Rossa attacca – operazione “Saturno” – e travolge. I soldati italiani sono costretti a fuggire all’indietro. Falcidiati dai mitragliamenti, dai colpi micidiali dei cecchini mimetizzati dai cumuli di neve. Sono inseguiti dai proiettili delle katiuscia. Un freddo polare e loro sono malcoperti e senza viveri.
Si forma una colonna interminabile di sbandati che devono compiere chilometri di steppa a piedi, tra cadaveri di compagni e carogne di muli. Le armi s’inceppano, strumenti inutili, le gettano. Anche Chiti è coinvolto nella ritirata che sarà la marcia del Davai.Davai dasvidania!
I testimoni riportano che quelli che cadevano stremati invocavano la mamma, il rantolo era: “Mamma, mamma.” Quelle madri che avrebbero affollato le stazioni a cercare invano i loro figli nei pochi treni di ritorno.
La fede
Chiti in ognuno che cade vede il Cristo del sacrificio, della Passione, vorrebbe fermarsi ma non può. Deve tenere compatti i soldati ancora validi per rompere l’accerchiamento, uscire dalla sacca. E portare in salvo quanti riescono ancora a camminare. La miracolosa e valorosa vittoria di Nikolajewka concede la via di uscita da quell’inferno, il ritorno a casa.
Al rientro in Italia, oltre alla medaglia, porta schegge nella schiena e un piede malandato.
La Repubblica sociale italiana
I tempi sono frenetici, crolla il regime fascista. Si impone una scelta e Chiti aderisce alla Repubblica Sociale Italiana (RSI). Le sue ragioni sono stringate e semplici: non può tradire il giuramento, non può abbandonare la Patria in difficoltà. Opera in Piemonte nell’Albese, comanda i Cacciatori degli Appennini. Compie delle missioni contro i partigiani, sono quelli di Fenoglio?
Si comporta da ufficiale efficiente ma evita eccidi, impiccagioni. La macelleria purtroppo in uso in quei giorni. Salva ebrei dalla deportazione e questo da lì a poco gli risulterà utile. La signora Storia lo sorveglia, sa che la situazione è scabrosa ed è curiosa di vedere come se la sbrigherà.
Nel maggio del 1945 viene arrestato e finisce internato nel campo di concentramento di Coltano, a poca distanza da Pisa. Il campo PWE 337 è affidato alla V armata USA “Buffalo”, quella entrata a Genova. Vi sono detenuti politici e militari repubblichini rastrellati. Con lui ci sono il grande poeta americano Ezra Pound e Tognazzi, Vianello, Walter Chiari e tanti altri: trentacinquemila.
Durante la detenzione, pochi mesi, fitta la corrispondenza di Chiti con il suo cappellano, Padre Edgardo Fei. Dalle lettere, raccolte adesso in volume, si evince la compenetrazione sempre maggiore del suo animo con il misticismo del sacro. E sviluppa il senso “corredentivo”, ovvero che i patimenti, le tribolazioni, siano l’occasione, addirittura un premio, per ottenere la redenzione.
Il processo
Quando la commissione si riunisce per giudicarlo capi partigiani ed ebrei testimoniano a suo favore e viene assolto dalle imputazioni più gravi. Le attenuanti alla famigerata adesione alla RSI: lo ha fatto per la necessità di “sostenere la madre sessantenne” e poi ha aiutato elementi partigiani. Questo in evidente conflitto con la sua figura di integerrimo soldato. È la resa alla vigliacca praticità. A causa dell’epurazione si deve rassegnare a fare per due anni il professore di matematica.
Escono decreti di indulto, nel giugno del 1946 l’amnistia per il suo passato nel fascismo repubblicano riceve solo un “rimprovero solenne”. Le porte dell’esercito, delle caserme, si riaprono per lui. Naturalmente vi si precipita. La signora Storia sorride benigna, generosa ha deciso di accontentarlo ancora. In fondo è lei l’artefice di tutto quel bailamme!
Nella Repubblica italiana
1960: Roma ribolle, giorno e notte, per le Olimpiadi. A Cinecittà smontano le bighe del film “Ben Hur”. Le biografie collocano in diverse località ma lui invece è nella caserma “Gandin” dei Granatieri di Sardegna, a Pietralata. Comanda la Quinta Compagnia Assaltatori. Li riconosci perché rasati, scattanti nel saluto. Impettiti, il manico di scopa nella schiena, sembrano i cadetti di West Point dei film. E sono orgogliosi del loro Comandante, stravedono per lui.
Una sera sono di piantone, leggo “Lolita” appena edito e mi permetto i piedi sulla scrivania. Il Capitano Chiti è d’ispezione, entra senza bussare, e si riversa su di me tapino di leva, di passaggio. I muri vibrano, non afferro la lesa maestà. L’epilogo? Qualche giorno di consegna.
Fuori dalle litanie ufficiali, rimaniamo con chi lo ha toccato, tastato. Giorgio è triste in cortile. Il Capitano Chiti gli chiede perché. “Non ho ricevuto la rimessa da casa, per le spesucce allo spaccio,” gli spiega lui. L’ufficiale apre il portafoglio e gli dà cinquemila lire, vincendo le sue resistenze. Giuseppe gli ha fatto da autista per sei mesi, lo accompagnava sovente a San Pietro, è rimasto ammaliato dalla sua figura. Adesso, come c’è una messa o cerimonia in sua memoria, macina chilometri pur di raggiungere il posto. Pastorino, qualche anno più avanti, in altra caserma: “Mi chiamava Pastorino il buono. Facevo la guardia d’onore ai lati dell’altare durante la Santa Messa. Una volta ritornati dalle manovre non abbiamo trovato il rancio e lui ci ha portati alla mensa ufficiali… Per me un padre!”
Minutaglia quotidiana che però rivela il profondo rispetto che aveva per i suoi soldati. Inflessibile, severo nel pretendere l’adempimento dei doveri ma altrettanto disponibile a difendere i loro diritti.
Ammesso tra i frati cappuccini
Il generale di brigata Gianfranco Chiti nel 1978 si congeda e viene ammesso nei frati minori cappuccini, povero tra i poveri. Ora è fra Gianfranco Maria, soldato di Gesù e la divisa il saio. Viene scritto che il Generale Chiti è stato arruolato da Dio.
1990 Orvieto. Il duomo meraviglioso che sfida il cielo, il pozzo di san Patrizio, le lenticchie e il vino Est, Est, Est! Cittadina assisa su un pugno di tufo friabile che potrebbe distendere le dita e tirare giù tutto, compresa la funicolare.
Arriva Chiti e si insedia nelle rovine del convento di San Crispino. Lo restaura, lo trasforma in un’isola felice per lui e i suoi poveri. Ma c’è una bandiera italiana che sventola a ricordare il suo credo: Patria e Chiesa. Chiude la sua vita tumultuosa nel 2004. La signora Storia soddisfatta lo abbandona e si dedica ad altri. È nel duomo di Orvieto che nel 2019 avviene la cerimonia per la chiusura del processo diocesiano della causa di beatificazione di lui, fra Gianfranco Maria Chiti da Gignese, già servo di Gesù. E il 24 Gennaio 2024 viene proclamato Venerabile su Decreto di Papa Francesco.
I commenti: “Era come un cappellano militare.” Eh noh! Lui è stato un guerriero vero, era il primo a lanciarsi contro gli avversari. E i suoi assaltatori strisciavano verso le esplosioni con un coraggio spavaldo, persino nelle esercitazioni. Li abbiamo visti!
Lui è come se avesse una vocazione gemellare. Forse nella disciplina militare c’è una componente ascetica che ritrovava nel percorso religioso. Il sacrificio dell’eroe ha attinenze con il sacrificio religioso?
Eccolo in televisione, imponente con la fluente barba bianca, e: “Quello dall’altra parte non lo abbiamo mai chiamato nemico.” Bello! Però gli sparava, l’obiezione. “L’esercito difende la pace, ha una funzione educativa…” Vero, ma concetti che non soddisfano. No, le parole non riescono a spiegare qual è il collante che unisce il valore della spada con il valore della croce. Le due fedi. La voce del comando si dissolve nella preghiera? Il suono è distonico, c’è dissonanza.
Ma… la sua grandezza interiore rifugge da facili sofismi e sbaraglia i dubbi. Il suo carisma avvolgevano i subordinati. Autoritario il magnetismo che emanava ma conduceva a Dio! Ricordiamo il suo percorso dai Granatieri con gli alamari “A me le guardie!” alla sua invocazione “Ero sicuro che saresti venuto”.
Da Coltano: “Il sospiro dei miei camerati mi è sembrato un grido di dolore. Ho avuto una visione… Gesù Benedetto, trasudante sangue nell’orto del Getsemani…” Ci inginocchiamo e gli chiediamo scusa, non lo abbiamo compreso. Come ci siamo permessi? La signora storia ci opprime, è lei che si frappone. Intransigente e di memoria impedisce l’afflato.
Complimenti di cuore, caro Gianfranco. Anch’io sono un suo devoto estimatore e ne ho scritto su Radici Cristiane, Maria di Fatima e altrove. Con Chiti, per Dio e per l’Italia! Diffondiamo la sua figura, è la sintesi che ci vuole.
Fabrizio C.
Complimenti vivissimi, caro Gianfranco. Anch’io ne sono un devoto ammiratore e ne ho scritto su Radici Cristiane e altrove. Con Chiti, per Dio e per l’Italia.
Fabrizio