Le luci si accendono su una scena scarna e simbolica. Una porta, esattamente al centro del palco, si apre sullo spazio vuoto. Entrano i protagonisti ed iniziano la loro vestizione con sgargianti abiti argentini: poncho, cappello, frange colorate. Sono una famiglia di italo-argentini a Roma, composta dal nonno e dai suoi figli, Ciccio e Dante e dai nipoti.
Perché i protagonisti devono indossare abiti argentini? Perché sono e non sono argentini del tutto. Sono italiani per gli argentini e in virtù di questo hanno deciso di intraprendere il viaggio della migrazione di ritorno, dall’Argentina all’Italia. Ma sono argentini per gli italiani e in virtù di questo decidono di aprire un ristorante a Roma, “Trattoria La Argentina”.
La porta rappresenta, appunto, la divisione tra cucina e sala della Trattoria, tra l’immagine di argentini, che la famiglia deve mostrare davanti ai loro clienti, e l’identità ibrida che vivono nell’intimità della loro cucina. Davanti agli ospiti della locanda, i componenti della famiglia sono tenuti a vestire i panni dello stereotipo argentino, a cantare canzoni folkloristiche argentine, a mettere in scena il “carnevalito”. Nel retro, vivono tutta la sofferenza dell’essere stranieri in Italia, non sentendosi integrati con la comunità, pur avendo tanto desiderato tornare nella madrepatria. Per mandare avanti la loro attività, si prestano a diventare burattini, ad essere marionette dello stereotipo, distanziandosi così ancor di più dal modo in cui hanno vissuto il loro essere italo-argentini a Buenos Aires.
In questa continua ricerca di identità, attraversata da commistioni linguistiche e culinarie, non sorprende un allontanamento netto dei nipoti della famiglia, che sono la terza generazione, la generazione dopo il ritorno e dopo l’infrangersi del sogno della madrepatria. Frida, una dei due figli di Lucia, ha scelto di trasferirsi da Roma a Madrid e, oramai, ha diradato sempre di più le visite alla famiglia. Suo fratello, Martìn, vive a Londra e ha rinnegato ogni legame con i parenti, chiamando solo di rado. Le loro scelte di vita sono radicate e si riflettono nella lingua: Frida – interpretata con precisione e grande realismo da Paolo del Peschio – non riconosce i termini usati dallo zio, abituata oramai allo spagnolo di Madrid, e Martìn rifiuta completamente sia lo spagnolo che l’italiano, rivolgendosi alla mamma in inglese.
Eppure, non soltanto i nipoti soffrono della mancanza di appartenenza a un gruppo sociale e culturale definito. La seconda generazione, Ciccio e i coniugi Lucia e Dante, sono cresciuti in Argentina e hanno vissuto lì la maggior parte della loro vita, accompagnati dal sogno dei genitori di ritornare alla propria terra d’origine. Ora che sono a Roma, le loro vite sono infelici: Ciccio, interpretato con vivacità e forza da Giordano Gaspari, si aggrappa al ricordo di Buenos Aires, legge ancora i giornali della città, raccogliendo qualsiasi piccolo indizio su come trascorra la vita al di là dell’oceano. Non si sente capito dai romani e non li comprende a sua volta, percependo solo insulti da parte loro. Dante si dedica esclusivamente al lavoro, tuffandosi nel fare per evitare di pensare e sforzandosi di tenere unita la famiglia in frantumi. Lucia, vive la sua solitudine di donna e ancor più di madre abbandonata dai figli: la rabbia la alberga, come ben emerge dalla recitazione di Rossella Gesini.
Tuttavia, è soprattutto nella figura del nonno che registriamo la forte drammaticità di questo breve testo dell’italo-argentino Roberto “Tito” Cossa, uno tra i maggiori esponenti del Teatro Abierto, il movimento teatrale della fine della dittatura in Argentina. La vecchiaia rende evidenti nel nonno tutte le schizofrenie latenti negli altri personaggi. Nella sua testa, che ci sembra di poter leggere chiaramente, grazie all’interpretazione cristallina e vera di Stefano Angelucci Marino – che ha curato anche la regia e la traduzione in italiano del testo – abita una grande confusione, toponomastica, linguistica e musicale, che diventa poi identitaria. Nei suoi ricordi le canzoni romane si scambiano con quelle argentine e il Colosseo sbuca alla fine di Parco Lezama: prima, desiderava tornare in Italia, ora, chiede costantemente “Quando andiamo a tornare a Buenosaria, Ciccio?”.
Questo spaesamento è ancor più evidenziato dalla scelta dell’uso di maschere della commedia dell’arte usate in maniera contemporanea – realizzate da Stefano Perocco di Meduna: sotto la maschera, il corpo amplifica le debolezze e le sfumature dei tipi umani. Il tutto, in una scena scarna e simbolica, i cui elementi scenici sono creazioni di Luisa Nicolucci.
In questo mix, come in un ciclo da cui non ci si può sottrarre, tornano ritmicamente i balletti caricaturali del carnevalito, con i coloratissimi costumi curati da Vize Ruffo, tornano le performance del nonno per allietare i clienti con canzoni argentine e tornano i litigi nel retrocucina. E’ il dramma della quotidianità alla cui circolarità non si può sfuggire. La trama statica di “Grigia assenza”, produzione del Teatro Stabile d’Abruzzo in collaborazione con il Teatro del Sangro, amplifica il dolore stagnante di questa tragedia familiare: che ci si trovi in Argentina o in Italia poco importa, il vuoto, quella grigia assenza interiore rimane.