Cari amici di Barbadillo, ho letto con vero piacere il ritratto di Giano Accame uscito pochi giorni fa su codesto periodico. È stato detto già molto; mi fa piacere aggiungere però alcuni ricordi personali, che derivano dal mio rapporto con lui, intervallato da lunghi silenzi, ma fattosi più intenso nei suoi ultimi anni di vita, quando forse la prescienza della morte imminente lo indusse a convertire quella ritrosia a concedere confidenza (Marcello Veneziani ha parlato di una sorta di avarizia ligure, in questo caso di sentimenti) in un’affabile franchezza.
L’avvio della carriera giornalistica su “Cronache”
Il primo ricordo è indirettamente legato al suo esordio nella stampa d’opinione, al di fuori delle riviste e rivistine ruotanti intorno al Msi, partito con cui Accame, giovanissimo reduce della Rsi, si trovò a lungo in un rapporto critico, sino all’uscita dopo il congresso di Viareggio del 1958 e prima del ritorno alla grande, come direttore del “Secolo d’Italia”. Giano fu assunto dal settimanale “Cronache”, un periodico finanziato da un importante gruppo immobiliare per contrastare l’influenza del “Mondo”, che soprattutto con gli articoli di Antonio Cederna denunciava la speculazione edilizia negli anni del boom (“col senno del poi – mi confessò molti anni dopo – devo ammettere che Cederna aveva ragione”). Su “Cronache”, però, Accame non si occupò di ambiente, ma pubblicò una serie di articoli su un disinvolto giro d’affari che pare ruotasse intorno all’entourage dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Gronchi in realtà fu un buon capo dello Stato, che per primo cercò di svincolare la sua figura dall’ingessato ruolo notarile in cui si era adagiati i suoi predecessori; però aveva un rapporto un po’ difficile col denaro, come molte persone che in gioventù avevano sofferto la povertà (aveva potuto studiare solo dando lezioni private e poi vincendo il concorso per la Normale; durante il fascismo si era arrangiato come rappresentante di commercio). Gli articoli ebbero un grande successo, tanto grande che il settimanale fu indotto a chiudere da pesanti pressioni: “Fu il primo caso – mi disse una volta scherzando – in cui una rivista chiuse perché vendeva troppo, non troppo poco”. Ma intanto Accame si ritrovò disoccupato.
Su “Industria Toscana” con Melchionda e Fisichella
In suo soccorso intervenne l’allora direttore dell’Associazione Industriali della Provincia di Firenze, l’avvocato Guido Postiglione. Postiglione era un ex prigioniero non cooperatore degli inglesi, che non faceva mistero dei suoi sentimenti. Arrivò a multare un centralinista che aveva risposto okay a una sua chiamata, perché “in Italia si parla l’italiano”: di inglese doveva averne sentito troppo in India, dove aveva fatto la fame. Accame però rifiutò il posto ben remunerato di capo dell’ufficio stampa dell’Associazione Industriali offertogli, per fedeltà al populismo della Rsi, in cui era stato giovanissimo volontario: non gli andava di fare “il servo dei padroni”. Il posto fu preso da Roberto Melchionda, suo coetaneo, anche lui orfano di Salò, con una condizione voluta da Postiglione: che anche dopo il suo pensionamento continuasse ad assicurare una ben remunerata collaborazione al settimanale dell’Associazione, “Industria Toscana”, a Stano Scorza, fratello di Carlo, l’ultimo segretario del Partito nazionale fascista. Melchionda era una delle migliori persone del mondo, con una statura morale inversamente professionale alla sua statura fisica, un po’ “longanesiana”. La sua vocazione sarebbe stata quella dello studioso di filosofia e di discipline esoteriche, ma le vicende della vita gli avevano impedito di intraprendere la carriera accademica; una volta in pensione, scrisse però molti importanti contributi sul pensiero di Evola. Quando alla fine degli anni Settanta mi trovai in difficoltà, perché con la mia laurea in Lettere incontravo serie difficoltà a trovare un lavoro stabile per il blocco dei concorsi nella Pubblica Istruzione, mi offrì prima una collaborazione stabile, poi un lavoro di redattore a tempo parziale a “Industria Toscana”, la rivista dell’Associazione, su cui per altro scriveva, ma col doppio pseudonimo di Percivalle e di Gianni Arconte, lo stesso Accame. Devo dire che era in buona compagnia: fra i collaboratori c’era fra l’altro un futuro ministro dei Beni Culturali e fondatore di Alleanza Nazionale: Domenico Fisichella, che all’epoca insegnava al “Cesare Alfieri” di Firenze. Naturalmente, per mia malaventura, c’era anche Stano Scorza, con i suoi illeggibili “pastoni” politici che ogni settimana mi toccava riscrivere da capo ai piedi; ma questo è un altro discorso.
Il Borghese
Nel frattempo però Giano fu assunto dal “Borghese” come responsabile della redazione fiorentina e si trasferì sulle rive dell’Arno. La sistemazione fu spartana, in una camera ammobiliata al Campo di Marte senza uso di cucina. Poco male, perché gli scapoli dell’epoca si facevano un vanto di non saper cucinare “nemmeno l’acqua lessa”, e Firenze, prima dell’esplosione del turismo di massa, era ancora una città a buon mercato, con trattorie destinate a divenire celebri, come “Il Coco Lezzone” o “Il Troia”, dove si poteva mangiare con poche lire. In uno di questi locali Accame incontrava alcuni collaboratori di spicco della rivista, come Giuseppe Prezzolini, quando passavano per il capoluogo toscano.
Ad avvicinare Accame a La Pira contribuivano però anche le comuni simpatie per De Gaulle e un certo gusto dannunziano della provocazione capace di sparigliare le carte della politica; in gioventù, del resto, il futuro sindaco santo era stato un ammiratore dell’impresa fiumana. Di qui una tensione nei rapporti di Giano con il direttore Mario Tedeschi, che ne cestinò una corrispondenza elogiativa della “repubblica fiorentina” di La Pira. Il fatto è che, figlio di un architetto navale, Giano amava a sua volta progettare nuove architetture ideologiche. Gli avversari, in omaggio al suo nome proprio, lo definivano bifronte, ma in realtà era un esteta della politica, come lo chiamava il comune amico Roberto Melchionda.
Pacciardi e la Nuova Repubblica
Nel frattempo Giano si era a suo modo reinventato anche politicamente. Nel gennaio del 1964 aveva aderito all’appello per la Nuova Repubblica lanciata dall’ex deputato repubblicano Randolfo Pacciardi, espulso dal Pri per la sua opposizione al centrosinistra; in seguito era divenuto direttore del periodico “Folla”, l’organo del movimento, dal titolo un po’ ottimistico, visto che in realtà quello di Pacciardi rimase un raggruppamento elitario. Non erano ancora maturi (e a quanto pare non lo sono nemmeno ora) i tempi per una repubblica presidenziale.
In una delle nostre ultime conversazioni Accame mi raccontò nei dettagli il suo incontro con Pacciardi, che proveniva da posizioni molto distanti dalle sue, in quanto combattente nella guerra di Spagna nelle Brigate Internazionali. Il giovane Giano chiese al vecchio antifascista due cose: se la sua per altro effimera militanza “repubblichina” fosse di pregiudizio all’ingresso nel movimento e, quesito più scabroso, se fosse davvero intenzionato a fare un colpo di Stato. Pacciardi, quanto alla prima domanda, lo rassicurò dicendogli che i vecchi combattenti sanno dimenticare i contrasti di un tempo; quanto al golpe gli rispose testualmente: “Ce l’ho sempre in testa, come la mona i soldati.” Non so perché Pacciardi, che era grossetano, usasse quel vocabolo veneto, ma non so neppure perché Giano avrebbe dovuto, a pochi mesi dalla morte, raccontarmi una bugia.
Il Settimanale
Quando lo incontrai per la prima volta, nel maggio 1980, Accame non lavorava più al “Borghese” (aveva leticato con Tedeschi per la sua valutazione ottimistica del Sessantotto) e, dopo un’esperienza poco soddisfacente al “Fiorino” di Luigi D’Amato, era caposervizio per l’economia del “Settimanale”. Quella rivista, fondata nel 1974 e divenuta proprietà dell’esponente della destra Dc Massimo De Carolis, era un singolare luogo d’incontro fra simpatici cani sciolti del giornalismo come Massimo Fini, uscito dall’ “Europeo” sbattendo la porta per reazione alle ingerenze socialiste, giovani di destra desiderosi di entrare nel giro del giornalismo “rispettabile”, come il sottoscritto, futuri ministri degli Esteri e presidenti dell’Europarlamento, all’epoca con un passato monarchico, come Antonio Tajani. Ma soprattutto aveva come redattore culturale un singolare protagonista dell’editoria italiana negli anni Settanta, Alfredo Cattabiani. Cattabiani era stato fondatore e direttore della Rusconi Libri prima di esserne estromesso per le pressioni subite dalla proprietà da parte di una sinistra che lo considerava un pericoloso reazionario. Con Cattabiani – che ho già parzialmente ricordato su questo sito – mi pose in contatto Accame, con cui mi aveva a sua volta messo in contatto Melchionda, e fu l’inizio di una fruttuosa collaborazione. Il mio primo incontro con lui era stato nel maggio del 1980, quando mi recai nella redazione del “Settimanale”, al secondo o terzo piano di un elegante condominio romano in via Boncompagni, a pochi passi da Villa Borghese. Di quel primo incontro mi sono rimaste impresse, a distanza di quarantaquattro anni, due cose: la raccomandazione di trattare con un occhio di riguardo il socialista Lelio Lagorio, all’epoca ministro della Difesa dopo essere stato presidente della Regione Toscana, perché era favorevole a una repubblica presidenziale, e la sua risposta alla domanda se la precedente militanza nel Msi potesse essere pregiudizievole per noi. “È giusto – aveva risposto – che i giovani facciano le loro prime esperienze nei casini”.
Il riserbo ligure
L’incontro fu fecondo di idee, anche se devo ammettere che nel corso di esso avvertii quel certo riserbo “ligure” di cui parlava Veneziani; o forse ero solo io che ero stato un po’ entrante. Il mio esordio cominciò con un articolo “ponte” fra cultura ed economia, dedicato alla letteratura industriale, con tanto di intervista a Geno Pampaloni, all’epoca direttore della Edipem, una branca nel settore scolastico della De Agostini, con sede a Firenze in un bel villino neorinascimentale di piazza Savonarola, a pochi passi da casa mia. Poi mi occupai solo di cultura e devo dire che quegli articoli, che uscivano quasi ogni settimana, furono per me motivo di rare soddisfazioni, e non solo perché ogni pomeriggio il motociclista della Regione mi depositava in cassetta inviti a conferenze stampa e anche a lauti pasti che mi avrebbero permesso di cenare gratis sei giorni su sette, opportunità cui ricorsi solo molto raramente.
“Il Settimanale” era un crocevia di esperienze e di storie, un laboratorio politico che purtroppo affondò pochi mesi dopo, nel 1981, quando fu costretto a chiudere dalla pubblicazione delle liste della P2, di cui facevano parte molti suoi esponenti (ma, sia ben chiaro, né Cattabiani né Accame, del quale ricordo ancora il giudizio che mi espresse a caldo sui piduisti: “erano dei sorci”). Gli orfani della rivista, che, come alludeva il titolo, aspirava a essere una sorta di pendant ebdomadario del “Giornale” di Montanelli e poteva contare su un comitato di garanti di tutto rispetto, da Rosario Romeo a De Felice, da Sergio Cotta a Vittorio Mathieu, seguirono strade diverse. Cattabiani non trovò, né forse cercò, altre redazioni in cui inserirsi e visse (male, come si vive in questi casi in Italia) di collaborazioni e dei diritti d’autore dei suoi raffinatissimi libri. E non fu facile reinserirsi in un mondo del giornalismo in larga parte controllato dalla Fiat per uno come Giano, che aveva dedicato nel 1980 una profetica copertina della rivista al “Crepuscolo degli Agnelli”. Per qualche tempo si riconvertì in dirigente dell’Ipsoa, casa editrice specializzata in opere di economia, finanza e gestione aziendale. Un altro avrebbe considerato quella sistemazione un mero ripiego, invece Accame riuscì a cogliervi due grandi opportunità. La prima fu la prosecuzione degli Annali dell’economia italiana, monumentale opera di Epicarmo Corbino. Le conclusioni del capolavoro dello studioso ormai quasi centenario, con un passato di antifascista liberale e di strenuo avversario della legge maggioritaria del 1953, furono di fatto tirate da Giano e da Gaetano Rasi, economista organico al Movimento sociale e poi ad Alleanza Nazionale, fondatore e direttore dell’Istituto di Studi Corporativi, poi “ministro per un giorno” nel 1995 del gabinetto Dini, da cui si dimise per disciplina di partito. Di maggiore impatto mediatico fu la mostra “L’economia italiana fra le due guerre”, che Accame organizzò a Roma nel 1984, nel grandioso scenario del Colosseo.
La mostra “L’economia italiana fra le due guerre” al Colosseo
L’esposizione, che costituiva un po’ il pendant della grande esposizione sugli Anni Trenta organizzata a Milano due anni prima, costituiva sotto diversi aspetti una rivalutazione di molte riforme economiche del regime. Al giorno d’oggi probabilmente sarebbe impensabile. Soprattutto sarebbe impensabile che si svolgesse sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica e con un comitato d’onore comprendente le più alte autorità dello Stato, oltre al sindaco di Roma, il comunista Ugo Vetere, e al presidente dell’Iri Romano Prodi. Come “foglia di fico” Accame ebbe la geniale idea di collocare una fotografia che ritraeva l’allora capo dello Stato, Sandro Pertini, al lavoro come muratore in Francia, dove era espatriato. “Forse fu l’unica volta che lavorò – mi diceva malignamente, – perché il resto del suo soggiorno in Francia da fuoruscito si fece mantenere dagli uffici politici delle Questure.” Comunque il Presidente venne, contemplò compiaciuto il se stesso di mezzo secolo prima con il berretto da muratore fatto con un foglio di giornale ripiegato; e impartì la sua benedizione all’iniziativa.
Quando Bocca raccontava Mussolini socialfascista
Una mostra del genere fu possibile anche perché il clima politico era cambiato. Un anno prima le celebrazioni del centenario della nascita di Mussolini si erano svolte senza incidenti e un giornalista molto abile nel cogliere lo spirito dei tempi come Giorgio Bocca aveva pubblicato con Laterza un pamphlet (Mussolini socialfascista) che riconosceva più d’un merito al regime e che ovviamente non sarebbe stato più riedito. Ma soprattutto erano gli anni ruggenti del craxismo, che fu anche un tentativo di restituire all’Italia una memoria condivisa, anzi secondo qualcuno di suturare all’interno del socialismo italiano la ferita della scissione del 1915, quando Mussolini aveva dovuto abbandonare la direzione dell’“Avanti!” per la scelta interventista. Accame, molto sensibile allo spirito dei tempi, parte interpretò, parte cercò d’incoraggiare questa operazione. Un’operazione che piaceva anche al suo vecchio amico Beppe Niccolai ma preoccupava buona parte della classe dirigente missina, preoccupata che il Movimento sociale, col tramonto dell’antifascismo, perdesse la sua… ragione sociale e con essa consensi e seggi in Parlamento.
Socialismo tricolore
Il risultato fu un libro, Socialismo tricolore, in cui Accame tesseva un elogio del tentativo craxiano di recuperare i valori nazionali affrancando il Psi dall’egemonia marxista. In effetti, erano passati molti anni da quando l’allora consigliere provinciale di Rovigo Giacomo Matteotti si opponeva durante la grande guerra all’erogazione di sussidi straordinari ai profughi della provincia di Vicenza e l’“Avanti!”, commentando il sacrificio di Cesare Battisti, scriveva che morire per la patria era un lusso che soltanto i borghesi si potevano permettere.
Nel dicembre del 1988 Gianfranco Fini, segretario del Movimento Sociale dopo le dimissioni di Almirante, chiamò Accame dietro suggerimento del duttile Pinuccio Tatarella alla direzione del quotidiano del partito, il “Secolo d’Italia”, e Accame accettò. Quando lo seppi, rimasi sorpreso. La Prima Repubblica sembrava più forte che mai, Pacciardi non aveva fatto il colpo di Stato, anzi era rientrato nel Partito repubblicano, e Giano mi sembrava ben inserito nel mondo del giornalismo “rispettabile”. Ci vedevamo puntualmente nei bei saloni dell’allora Cassa di Risparmio di Firenze, negli incontri biennali del Premio Prezzolini, che riunivano i più bei nomi della cultura moderata, da Augusto Del Noce a Renzo De Felice, con la benedizione del presidente del Senato Spadolini, “intronato” come un cardinale su di una poltrona over size. Sulle prime, pensai che il suo fosse un modo di concludere da direttore di quotidiano una brillante ma travagliata carriera giornalistica, cui non era estranea – come mi confessò una volta – la possibilità di percorrere comodamente a piedi l’itinerario da casa sua alla sede del “Secolo” (odiava guidare e aveva buttato la patente nel Tevere). In realtà credo che dietro quella scelta non vi fosse solo una sorta di “via pensionistica al neofascismo”, come qualcuno malignò, ma da un lato un ritorno di fiamma, in tutti i sensi, delle passioni giovanili, dall’altro l’intuizione che il crollo imminente del comunismo sovietico avrebbe messo in crisi l’assetto istituzionale uscito a Jalta.
Il “Secolo d’Italia” e i rapporti con Gianfranco Fini
L’esperienza di Accame al “Secolo” fu breve. Fedele alla sua vocazione a mettere in discussione luoghi comuni e attitudini mentali consolidate, Giano assunse nei confronti dell’immigrazione extracomunitaria – un problema che incominciava già allora a manifestarsi – una posizione controcorrente, caratterizzata anche dal rifiuto di cavalcare gli umori xenofobi interpretati a quell’epoca dalla Lega Nord. Memorabile una prima pagina del quotidiano, il 31 dicembre 1989, con Gianfranco Fini che teneva in braccio una bambina di colore, sotto un titolo a nove colonne: “Solidarietà”. Quando Pino Rauti vinse il congresso, Giano scelse di non dimettersi, anzi scrisse un editoriale di incoraggiamento al nuovo segretario del partito. Fini non glielo perdonò e, quando ritornò segretario del Msi, nel 1991, lo sostituì alla direzione del quotidiano con un uomo d’apparato, il deputato siciliano Guido Lo Porto. Ne nacque un lungo astio di Accame nei confronti di Fini, che non stimava sotto il profilo culturale, un astio che si sarebbe accresciuto anni dopo, in seguito alle esternazioni del leader di Alleanza Nazionale su fascismo “male assoluto”. “Il ragazzo non è intelligente” divenne una delle sue frasi preferite, e si capiva benissimo a chi si riferisse. Non credo avesse ragione: non si diventa vicepresidenti del Consiglio senza un minimo di materia grigia. Ma certo, dopo la precoce scomparsa del suo intelligentissimo mentore Pinuccio Tatarella, Fini era rimasto un po’ come Battisti senza Mogol.
Il suo pensionamento precoce non fu un congedo dall’impegno giornalistico e culturale, anzi. Oltre a fare da “padre nobile” della corrente della Destra sociale, facente capo al mensile “Area”, Accame pubblicò alcune delle sue opere più mature, come Una storia della Repubblica, e collaborò con Renato Parascandolo, direttore di Rai Educational, e il regista Sergio Tau a una serie di documentari sulle “intelligenze scomode del Novecento”. Proprio nell’ambito di questa serie Giano venne a intervistarmi sulla figura di Giovanni Papini, con una folta troupe televisiva, nella mia casa fiorentina, poco distante dalla chiesa neogotica di San Francesco in cui fu celebrato nel 1956 il funerale dello scrittore. Fu l’occasione per riallacciare un rapporto che non si era mai interrotto, ma nel corso degli anni si era andato allentando, come spesso succede quando due persone vivono in città diverse e non collaborano a progetti comuni. C’eravamo già incontrati nel dicembre del 1996, in occasione di un congresso che aveva organizzato sulla figura di Carlo Delcroix, in cui mi aveva chiamato a tenere una relazione sul ruolo svolto dal poeta e grande invalido di guerra, nonché suo suocero, come presidente del Maggio Musicale Fiorentino. Ci rivedemmo ad Ariano Irpino durante un convegno sulla cultura della destra, nell’ottobre del 2001. Era ancora bruciante il ricordo dell’11 settembre, e, quando il discorso cadde su quel grande e terribile avvenimento, Giano, fuori microfono, se ne uscì in un “Ma se lo ricordano gli americani di Hiroshima?” Non credo che in lui vi fosse alcuna simpatia per i terroristi islamici, semmai uno spirito di bastian contrario sommato a un sottile compiacimento per il fatto che un popolo abituato a bombardare impunemente il mondo (era ancora fresca anche la memoria della guerra del Kosovo) avesse capito a sua volta cosa vuol dire essere colpito nel suo territorio, per giunta in uno dei suoi luoghi simbolo.
Nel corso di entrambi gli incontri ebbi modo di conoscere meglio la moglie di Accame, Rita Delcroix, che conservava in un fisico giunonico i tratti di un’antica freschezza quasi adolescenziale. Era una donna colta e credo che solo la sorridente dedizione prima al padre invalido, poi al marito e alla famiglia le abbiano impedito di seguire la carriera accademica. Aveva trovato lo stesso il modo di pubblicare un elegante volume su Giuliano dei Medici, non la vittima della congiura dei Pazzi, ma l’ultimogenito di Lorenzo il Magnifico; riuscii a presentarla a Firenze nella sede più appropriata, Palazzo Medici Riccardi.
La mostra “Arte e memoria”
Gli ultimi rapporti, di lavoro, se così si può dire, che ebbi con Giano furono legati a un’iniziativa della Regione Lazio, allora presieduta da Francesco Storace. Era prossimo l’anniversario dell’intervento italiano nel primo conflitto mondiale e Accame coordinò una grande esposizione, con relativo catalogo, sul tema Arte e memoria. A novant’anni dalla Grande Guerra. Giano mi chiese un articolo sul ruolo degli intellettuali, che si rivelò problematico per la difficoltà di concentrare in poche cartelle un’enorme documentazione. Il testo che gli inviai gli piacque molto, anche se mi chiese di aggiungere qualche notizia in più sull’Alcova d’acciaio e i Taccuini di Marinetti. Lui che, stanco di guidare, aveva buttato la patente nel Tevere aveva lo stesso un debole per i futuristi, che preferivano “un automobile” (ancora senza apostrofo, perché al maschile) alla Nike di Samotracia.
L’iniziativa ebbe un epilogo piuttosto increscioso, perché, dopo la sconfitta di Storace alle Regionali del 2005, la nuova amministrazione si guardò bene dall’onorare gli impegni presi dalla Giunta precedente. La mostra si fece, ma ai collaboratori non furono pagati neppure i modesti compensi promessi e furono lesinati i cataloghi. Me ne dolsi non per me, bensì per Giano. Credo che la situazione lo avesse posto in serio imbarazzo, lui che aveva ereditato dagli antenati armatori il culto ligure per il rispetto degli impegni presi ed era cresciuto in un’epoca in cui era considerato normale che il lavoro intellettuale fosse remunerato.
Quella mostra fu però l’occasione di uno dei miei ultimi incontri con lui, forse l’ultimo. Mi ero recato a Roma per lavoro e Giano ne approfittò per farmi da guida all’esposizione, che era stata comunque inaugurata alla stazione Termini e che aveva curato col critico Claudio Strinati nella parte storica. Rimasi colpito dalla competenza, ma soprattutto dalla passione con cui illustrava i diversi aspetti dell’esposizione, che considerava un po’ sua figlia. Lo accompagnavano il nipotino e la baby bitter. La mostra era veramente bella, con cimeli d’epoca, come la bicicletta dell’eroico bersagliere Enrico Toti, e splendidi dipinti, fra gli altri, di Sironi e Soffici; purtroppo era semideserta, pur essendo aperta in uno dei luoghi più frequentati della capitale. Dopo, andammo a cena con sua moglie Rita in una trattoria sotto la sua abitazione. La conversazione cadde sui genitori di entrambi, divisi dalle scelte successive all’8 settembre, ma accomunati dalle persecuzioni subite dopo il 25 aprile. Il padre di Giano fu epurato, ma volle essere sepolto lo stesso con l’uniforme di ufficiale di Marina; al grande mutilato Carlo Delcroix furono sequestrate come profitti di regime perfino le protesi. Studiando la storia della Rsi, scoprii che il ministro dell’Educazione Nazionale Carlo Alberto Biggini aveva protestato contro un’analoga barbarie commessa all’epoca a spese di ebrei. I regimi cambiano, gli abusi sbirreschi, purtroppo, a volte no. Il male spesso non è nelle ideologie, ma nei nostri cuori.
Quell’incontro risale al giugno del 2005; dopo ci sentimmo solo per telefono. Telefonate lunghe, a volte di ore, in cui Giano, di solito così sobrio nell’esternazione dei sentimenti, pareva desideroso di consegnarmi piccoli e grandi segreti della sua vita che temeva morissero con lui, e che in parte ho divulgato in questa lettera. Mi consegnò anche un suo giudizio sul fascismo che non mi sono mai dimenticato. Molti di quanti conservano quella che viene eufemisticamente definita una memoria indulgente nei confronti del regime sostengono che Mussolini si sarebbe dovuto fermare ad una determinata data: chi dopo la campagna d’Etiopia, chi prima delle leggi razziali o del 10 giugno. Giano mi disse che la crisi del regime era già evidente quando, nel suo inno ufficiale, il ritornello “nel fascismo è la salvezza della nostra libertà” quest’ultima parola fu sostituita da “civiltà”. In un regime che pretendeva anche di imporre di darsi del voi invece che del lei, l’uso del primo termine avrebbe fatto sorridere. Per lo stesso motivo mi confessò che da ragazzino detestava l’inquadramento nelle organizzazioni giovanili del regime, il che non gli impediva di rispettare il ricordo di Robert Brasillach, che pure aveva definito “il poeta dei balilla”.
La morte di Pippi Dimitri
Ripensando a quelle confessioni, mi sono domandato spesso se Giano fosse davvero convinto che la sua fine fosse prossima. La morte del genero Giuseppe Dimitri, coinvolto in un incidente stradale, l’aveva profondamente segnato; ricordo una lunga telefonata che intercorse fra noi la Pasqua del 2006, pochi giorni dopo i funerali. Certo, Giano non era affetto da nessuna malattia incurabile, ma a volte il fisico rilascia segnali alla psiche che la ragione non è in grado di cogliere.
I primi sintomi della malattia che l’avrebbe portato alla morte lo colsero durante un convegno a Vibo Valentia. Ormai ottantenne, era ancora sulla breccia, girava l’Italia fra un congresso e una presentazione, e aveva da poco scritto un libro dal titolo quasi profetico: La morte dei fascisti. Nel dicembre del 2008 si allettò; morì il 15 aprile dell’anno successivo. Negli ultimi mesi della sua vita si era riconciliato con Gianfranco Fini, che aveva saputo riconquistarlo rivalutando, nell’ultima stagione della sua carriera politica, quel Sessantotto per difendere il quale Giano aveva rotto con Tedeschi. Il ragazzo forse non era intelligente, astuto sì.
Cinque anni prima, in occasione di un seminario sul tema “La ‘guerra impossibile’ nell’età atomica. Dialogo delle città bombardate”, organizzato nell’aprile del 2004 a Valmontone, Giano aveva confessato di conservare “l’immagine di La Pira diffusa per il processo di canonizzazione, accanto a quella di Padre Pio e di Fra Ginepro da Pompeiana, cappuccino e cappellano militare mio amico, che confessò Mussolini nel dicembre ’43”. È probabile che quegli accostamenti abbiano scandalizzato più d’uno fra i partecipanti al convegno, però mi piace lo stesso immaginare che la morte abbia sorpreso Giano in compagnia di quel fritto misto di spiritualità, in cui a pensarci bene c’è un piccolo grande frammento di storia e di vita italiana.