Si è svolto in questi giorni a Washington il congresso nazionale degli avvocati americani riuniti nella Federalist Society, un’associazione che raggruppa giuristi d’ispirazione conservatrice e libertaria (non solo avvocati, ma anche professori e studenti delle varie Law Schools, riuniti rispettivamente nella Faculty Division e nella Student Division). Il tema del convegno era il ruolo della legge nell’epoca delle diverse identità di gruppo (etnico-razziali, culturali, sessuali ecc.): un tema ovviamente centrale nell’America che fa i conti con una società in cui la geografia delle diverse comunità è in rapida mutazione, e in cui il discorso pubblico è stato segnato negli ultimi anni dalle follie della wokeness e della cancel culture, che in nome dell’antidiscriminazione e della cosiddetta diversity hanno sferrato attacchi micidiali a molti pilastri della vita collettiva, e, in fondo, al sen- so comune.
La Fedsoc
Nata nei campus delle università americane negli anni Ottanta, in reazione alla dittatura culturale della sinistra liberal, la Fedsoc, come abitualmente è chiamata, è una associazione che ha via via assunto, negli Stati Uniti, un peso sempre crescente nel dibattito pubblico, spesso anticipando scelte cruciali di politica legislativa e giudiziaria.
L’informazione mainstream italiana o non la conosce, e quindi la ignora, oppure, quando (raramente) ne parla, la descrive nel solito modo caricaturale che la sinistra culturale utilizza nei confronti di quelli che percepisce come avversari: una oscura e potente lobby capace, ad esempio, di far pressione su Trump per orientare la recente nomina di alcuni dei giudici della Corte Suprema.
Naturalmente, la Fedsoc è tutt’altro. È un’organizzazione che partecipa trasparentemente alla discussione pubblica, ed è attenta a fare della libertà di discussione e di parola una propria caratteristica, anche organizzativa: in tutti i panel dei dibattiti che essa organizza sono sempre presenti oratori con idee diverse, in rottura della cu- pa censura esercitata dalla far left statunitense, che rifiuta per principio il confronto con il mondo conservatore e, se è nelle condizioni di farlo, impedisce di parlare ai suoi esponenti (ma non è che da noi le cose vadano così diversamente…). Sul piano istituzionale è attenta a preservare le basi fondamentali dell’ordinamento costituzionale americano: il potere pubblico (federale e statale) esiste in funzione della difesa delle libertà dell’individuo, la separazione tra i poteri va continuamente organizzata e presidiata.
Il ruolo della Fedsoc nelle nomine dei giudici statunitensi, particolarmente quando l’amministrazione federale è nelle mani del Partito Repubblicano, non dipende da segrete pressioni lobbistiche, ma dalla sua capacità di aver messo al centro della scena alcune tendenze culturali prima neglette tra i giuristi, e, di conseguenza, di aver portato in prima fila alcuni giudici che quelle posizioni condivido- no: l’attenzione al testo delle disposizioni della Costituzione e della legge, l’idea che al potere giudiziario sia attribuito il compito di applicare la Costi- tuzione e la legge per quel che dicono, non già per quel che le preferenze soggettive dei giudici suggeriscono. Non oscure pressioni, insomma, ma la condivisione di queste posizioni “testualiste” ha condotto Brett Kavanaugh, Neil Gorsuch e Amy Coney Barret alla nomina a giudici presso la Corte suprema Usa.
Chiarissimo Reagan
Proprio in riferimento al ruolo di magistratura e giudici, la Fedsoc ha un semplice decalogo che, al netto di ovvie semplificazioni, sarebbe istruttivo portare nel nostro clima culturale, tanto più in queste settimane segnate dal noto conflitto tra politica e magistratura sulla disciplina dell’immigrazione illegale. Distingue, questo decalogo, il buon giudice da quello cattivo: il primo, come si diceva, è vincolato ad applicare fedelmente la Costituzione e la legge secondo il loro significato testuale, comprende che il suo ruolo è limitato e non deve tendere a produrre decisioni politicamente orientate. Il buon giudice, insomma, ha mente fredda ed è obbiettivo e imparziale. Il secondo invece, si lascia trasportare dalle proprie passioni, non è lucido e impersonale, come dovrebbe: sovrappone preferenze politiche al testo della legge, forza quest’ultimo verso determinati obbiettivi e, alla bisogna, ricorre al diritto internazionale o sovranazionale per giustificare le scelte che preferisce.
Ronald Reagan scrisse una volta: se i giudici non sono vincolati al testo delle disposizioni che devono applicare, non avremo più il governo delle leggi, ma quello di uomini e donne che fanno i giudici. E se questo succede, concludeva, le parole dei testi normativi che noi pensiamo ci governino non sarebbero che maschere che nascondono le regole create dai capricci di una ristretta élite… Parole da meditare, che rimbalzano da una parte all’altra dell’Atlantico.
*Vicepresidente emerito della Corte Costituzionale