Giano Accame è stato uno dei più formidabili ed intelligenti intellettuali nazionalpopolari. Lo ricordavo qualche settimana fa sfogliando le annate del “Secolo d’Italia” che lo videro direttore, mentre io lo coadiuvavo come capo redattore, occupandomi del presidenzialismo a cui lui era culturalmente e politicamente legato. Era nato il 30 luglio 1928 a Stoccarda e morì a Roma il 15 aprile 2009: in questi ultimi quindici anni mi è mancato molto e non solo come autore de La morte dei fascisti o di Socialismo tricolore, né come ideologo tra i più acuti del secondo Novecento. Ne ho avvertito la mancanza come uomo, amico, militante della “buona battaglia”. E così voglio ricordarlo, a parte l’amicizia che a lui e alla sua famiglia mi legavano.
Schivo com’era non mi aveva fatto sapere niente della sua malattia. Sicché alla sua morte non ero neppure lontanamente preparato, tanto che contavo di andargli a fare visita in quei giorni. Non mi sorprende pensandoci adesso che non c’è piùda tempo: Giano Accame era fatto così. I suoi dolori privati (e quanti ne aveva avuti!) se li teneva per sé come se provasse fastidio a coinvolgere gli amici nelle sue pene, a farli partecipi di ciò che poteva turbarli.
Era un uomo antico che manifestava con parsimonia i suoi sentimenti, la delicatezza del suo animo, le intime gioie come le sofferenze più acute. E soprattutto era votato ad una impersonalità attiva che lo portava a privilegiare la diffusione delle idee, la conoscenza, una certa visione del mondo e della vita piuttosto che la rappresentazione di se stesso. Perciò con coerenza non cercava il proscenio, ma piuttosto i sentieri impervi che lo portavano di frequente laddove non c’era nessuno, uno spazio ideale e culturale che ha dovuto faticare non poco per far uscire dall’ombra. L’attraversamento del bosco, metafora jungeriana alla quale Accame era particolarmente affezionato, gli ha fatto incontrare i suoi simili e coloro che erano profondamente diversi da lui. Con tutti è riuscito, in sessant’anni di attività intellettuale e politica, a stabilire un dialogo che superasse le lacerazioni proprie della modernità fino a trovare sintonie quasi irreali in un modo dominato dalle apparenze.
È stato così che s’è imposto, nonostante le diffidenze dominanti, all’ammirazione di coloro che non ha mai reputato nemici e neppure avversari, ma soltanto di opinioni dissimili dalle sue. E per questa via, certamente non agevole, forse più di altri della sua generazione ha contribuito alla legittimazione di quella che forse impropriamente chiamavamo “cultura di Destra” al tempo delle contrapposizioni radicali e delle feroci discriminazioni civili.
Ma il cosiddetto “superamento degli steccati” per Accame non è mai stato l’alibi per annacquare le proprie idee, per contrabbandare la sua particolare concezione della storia e soprattutto la percezione che aveva interiorizzato del Novecento. Si metteva all’ascolto e riusciva a cogliere le contraddizioni degli interlocutori più attrezzati, ma in buona fede, volgendoli a vantaggio della cultura dei “vinti”, degli esclusi, di coloro che non avrebbero mai dovuto avere cittadinanza nell’Italia egemonizzata dall’ideologia marxista ed azionista. A dire la verità, le definizioni non piacevano molto ad Accame il quale, da intellettuale raffinato, era capace di intendere le ragioni degli altri, di storicizzarle, di farle confluire nel grande mare di una cultura nazionale da ricomporre pena la fine della stessa idea di nazione.
C’era un’ansia pacificatrice in Accame, insomma, che non si esauriva nell’attività di giornalista, di saggista, di animatore culturale, di agitatore di questioni “cruciali”, di rivisitatore di autori scomparsi dai cataloghi dei grandi editori, di raccontatore di avventure dello spirito prima che delle idee come la Rivoluzione conservatrice tedesca, il “fascismo immenso e rosso” che non coincideva con quello storico, di un “socialismo tricolore” tutto da inventare quale pilastro di una nuova rivoluzione che conciliasse solidarietà e libertà, mercato e comunità, istanze individuali e bisogni collettivi.
Un’ansia che si profondeva soprattutto nel cercare tra le pieghe della vicenda nazionale le ombre di una grandezza perduta non in chiave sciovinistica, quanto per dare un senso all’”unità di destino” che un Paese deve necessariamente avere se non vuole rinunciare ad essere soggetto storicamente rilevante.
Quando nel 1980 gli chiesi di scrivere la prefazione al mio saggio su Carlo Costamagna, suo amico e maestro, fu particolarmente felice perché l’occasione gli parve propizia a saldare un vecchio debito di riconoscenza con uno dei più grandi pensatori del Novecento, ma anche perché, attraverso lo studioso ligure, poteva dimostrare quanto la cultura italiana fosse immersa in quella europea capovolgendo l’assunto secondo il quale era invece estranea ad essa. E dunque la rivendicazione della continuità tra le esperienze intellettuali degli anni Trenta e la modernizzazione di un pensiero “tradizionalista” ben presente nel dopoguerra italiano è stata per Accame quasi una sorta di missione tesa a “gettare” i semi di una rinascita politica attraverso la fioritura del dibattito intellettuale.
“A Carlo Costamagna ho voluto molto bene – scrisse – ed ho nei suoi confronti un grosso debito di riconoscenza. Stavamo a pochi chilometri di distanza in due comuni confinanti sull’Aurelia, questa grande strada della civiltà mediterranea che da Roma arriva sino in Spagna. lo a Loano, il paese della mia famiglia; lui a Pietra Ligure, il paese della moglie, in una villa posta sulla curva che sovrasta a monte l’abitato. Vi giungeva dal mare il rumore martellante del cantiere. Verso la fine degli anni ’40, nei lunghi inverni di una Riviera che fuori stagione era ancora deliziosamente addormentata, ma anche un po’ noiosa, un paio di volte alla settimana andavo a passare il pomeriggio da lui per chiacchierare. Eravamo, a titolo diverso, due «sfollati del dopoguerra». Mentre gli altri, finito il pericolo dei bombardamenti, ritornavano in città, era toccato a nostra volta di doverci rifugiare in paese per quel vasto anche se provvisorio processo di emarginazione che fu l’epurazione. Mio padre aveva dovuto lasciare la Marina. Erano tempi duri. Costamagna sognava di ritornare a Roma, alla sua cattedra d’università, e pensava di portarmi dietro come suo assistente. Ma la cattedra non gli fu più restituita.
Quali siano stati i temi delle nostre conversazioni è facile a intuirsi. Mi ero iscritto a legge, all’università di Genova, ma ci andavo di rado. A guidar le mie letture, spesso pescando i libri dalla sua biblioteca, era Carlo Costamagna. E più libri di politica e di storia, che non di diritto. Perché per lui grande giurista, il diritto non era una scienza formale, separata e chiusa nella sua logica, ma una <<scienza normativa (…) che non può essere indifferente alla propria applicazione». Altrimenti detto: una scienza ordinatrice di norme, di comandi che presuppone una identità ed una vocazione nazionale da realizzare. Quindi, in senso superiore. una volontà politica e dei fini, una comunità di destino, da intendere e servire modellando le sue istituzioni sul genio e sui progetti della stirpe che l’esprime. Tra i libri che mi fece leggere Le rivoluzioni d ‘Italia del Quinet, gli scritti di Giuseppe Ferrari ed Enrico Leone, L’Italia moderna di Gioacchino Volpe, La Crisi del mondo moderno di Renè Guénon e Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola presentavano dei vistosi elementi di contraddizione. Ma era sua ferma, assoluta convinzione che tra la Tradizione e la rivoluzione nazionale e popolare iniziata dal Risorgimento all’insegna dd Primato e della Terza Roma, poi proseguita con l’interventismo ed il fascismo, non vi potesse essere sostanziale disaccordo. Tanto che gli sembrò sempre superfluo cercare di risolverne i punti di contrasto, non arrivando neppure a concepire una destra resa in qualche modo passiva e indifferente alla passione nazionale, all’idea della gran dezza di Roma e dell’Italia. Sua massima ambizione era stata quella di costruire e sistematizzare alla luce di un pensiero «nuovo» una dottrina del diritto in cui si riflettesse per intero l’originalità della rivoluzione fascista, cioè la forma italiana di quei movimenti nazionali e popolari che negli anni ’30 parevano destinati ad affermarsi come la realtà emergente e travolgente del XX secolo. Un errore di prospettiva su cui converrà poi soffermarsi. Ma anzitutto, giacchè a questo può servire la mia testimonianza, deve rilevare che fra i tanti libri che Carlo Costamagna mi ha imprestato non vi fu mai la sua Storia c dottrina del fascismo (1938). Egli la considerava superata dalla «seconda edizione interamente rifatta» degli Elementi di diritto pubblico generale (Utet, 1943), un testo che è rimasto praticamente sconosciuto, essendo stato a sua volta superato dalla crisi del regime prima di raggiungere i lettori.
Le due opere sono, per quanto attiene ai concetti essenziali ed alle loro proiezioni largamente coincidenti. Infatti, se in Storia e dottrina del fascismo Costamagna affermò la necessità «di ricostituire una «Statologia» o «Scienza dello Stato», la quale costituisce il contenuto stesso della dottrina del Fascismo» risolvendo quindi il fascismo nel concetto nuovo dello Stato, i suoi Elementi di diritto pubblico generale erano a loro volta così intrisi di dottrina del fascismo da risultame assolutamente inseparabili e, conseguentemente, del tutto inutili”
A tal fine fu vicino, negli anni Settanta, alla corrente culturale della Nuova Destra; diresse con questo spirito il “Secolo d’Italia” dal 1988 al 1991; scrisse libri che hanno lasciato il segno; sostenne dibattiti sulla modernizzazione delle istituzioni, fedele a quel presidenzialismo colto a piene mani dalla collaborazione con Randolfo Pacciardi ed il movimento Nuova Repubblica.
L’eredità di Accame è nella sua opera, ma anche nell’esempio offerto alle generazioni più giovani. A ottant’anni era un vecchio ragazzo, fedele agli ideali della sua giovinezza e ad una storia che viveva nelle sue carni. Non dimenticherò le pieghe amare sul suo volto quando si sentiva tradito da coloro nei quali aveva riposto fiducia. E ricorderò sempre il suo sorriso quando scopriva le sue verità nelle parole di chi gli era lontano. Continuerà a mancarci come può mancarci un maestro perduto.