Una serie di eventi politico-economici degli ultimi anni, non ultima l’elezione plebiscitaria di Trump negli Usa, sembrano confermare che stiamo vivendo un’epoca di cambiamenti profondi. A essere messo in discussione è l’ordine mondiale occidentalista e unipolare affermatosi dopo il crollo del Muro di Berlino e dell’Urss, eventi che posero fine alla “guerra fredda” e agli assetti bipolari. In un clima di generale incertezza sembra oggi affermarsi una configurazione del mondo multipolare. Questo, in estrema sintesi, il contenuto di un volume comparso nelle librerie per i tipi di Diana edizioni, Ordine multipolare. Geopolitica e cultura della crisi (pp. 309, euro 20,00). Si tratta di una raccolta di saggi, di noti studiosi di geopolitica, ma anche di filosofi e politologi, italiani e stranieri, voluta dal GRECE Italia a seguito di una serie di conferenze organizzate in tema.
Francesco Marotta, nell’incipit del libro, scrive: «Il nostro obiettivo è quello di accendere la curiosità dei lettori» (p. 15). Al termine della lettura è possibile affermare che l’intento è stato pienamente conseguito. Chi scrive non è certo un esperto di geopolitica, eppure queste pagine, ricche di informazioni politiche, economiche, sociologiche ma, ci permettiamo di farlo rilevare, anche geo-filosofiche, ci paiono imprescindibili per una comprensione effettiva del nostro tempo. Soffermiamoci, pertanto, tra gli altri, su alcuni dei saggi che ci hanno maggiormente colpito. Innanzitutto, i due scritti di Alain de Benoist. Il pensatore francese muove dall’assunto che stiamo assistendo, a partire dall’attentato alle Torri Gemelle, al riemergere della problematica, tipicamente politica, della pluralità. Sul campo si stanno confrontando, di fatto, tre schieramenti: l’Occidente a trazione Usa, unipolarista, gli Stati nazionali e il fronte, per usare un’espressione schmittiana, degli “Stati Civiltà”.
Gli Stati nazionali paiono a de Benoist deboli di fronte al processo di globalizzazione, in quanto guardano al mondo dalla prospettiva di un solo popolo. L’occidentalismo sta tentando, servendosi di ogni mezzo, perfino della guerra aperta, il caso ucraino è, in tal senso, emblematico, di imporre la visione del mondo neoliberale, centrata sulla “religione dei diritti”, la cui fase estrema è rappresentata dalla Woke Culture e dal gender, mirati a destrutturare qualsivoglia identità e appartenenza. Al contrario, il fronte composito degli “Stati Civiltà” si va rafforzando in forza delle de-dollarizzazione in atto negli scambi internazionali. Tali Stati sono: «potenze regionali la cui influenza si estende al di là delle loro frontiere e che concepiscono il “Nomos della Terra” come […] multipolare» (p. 26). Ciascun insieme di civiltà, infatti, ha un’identità culturale e politica distinta (lo mostra, a chiare lettere, il saggio di Andrea Virga dedicato alla Sinosfera). L’identità russa, tra le altre, si fonda sulla “Noità”, su una concezione comunitaria centrata sul sacro testimoniato dalla tradizione ortodossa.
In Giappone, ricorda il filosofo transalpino, fin dagli anni Quaranta del secolo scorso, la Scuola di Kyoto teorizzò il multipolarismo, richiamandosi a Herder e von Ranke. Tale Scuola pensò a: «sfere di co-prosperità della più grande Asia Orientale» (p. 29). Posizioni non dissimili in Cina sono proprie della Scuola Tianxia, sostenitrice di un ”socialismo nazionale” di stampo organicista-tradizionale. Dati tali presupposti teorici, gli “Stati Civiltà” si muovono in una logica dei grandi spazi che: «non ha portata universalista» (p. 31). Marotta guarda, in questo senso, con interesse, allo spazio dell’Eurasia, oltre le prospettive meramente escatologiche e teologiche, in quanto l’Eurasia per definizione è un pluriverso.
Andrea Zhok, dopo aver ricordato le fondamentali differenze che distinguono l’imperialismo talassocratico USA, dagli Imperi tellurici, individua il momento saliente dei processi di occidentalizzazione del mondo nell’uscita degli USA dall’accordo di Bretton Woods nel 1971, che svincolò l’emissione del dollaro dalla sua convertibilità in oro. Da allora la globalizzazione divenne un processo: «con un centro di comando e un’ideologia guida, entrambi statunitensi, e un destinatario: il resto del mondo» (p 38). Eserciti, FMI e l’informatizzazione propria del capitalismo cognitivo hanno messo in atto tale processo. Il “tele-imperialismo” ha mostrato la sua debolezza durante la crisi del 2008. Il rafforzamento della Cina e l’ampliamento del fronte dei paesi BRICS, con la volontà di creare la Nuova Banca di Sviluppo, stanno rendendo il mondo multipolare una realtà di fatto. Non è ancora chiaro in qual senso la crisi evolverà ( lo mostra lo scritto di Augusto Grandi), ma l’universalismo astorico neoliberale è in fase terminale.
Eduardo Zarelli muove dalle tesi di Schmitt e distingue: «le potenze basate sul primato della funzione politica e potenze basate sul primato della funzione tecno-economica» (p. 60). La posta in gioco è la salvaguarda della “radice terrena dell’uomo”, oltre il mercatismo della dismisura. Allo scopo, si tratta di ripensare l’idea di Imperium, il principio di sussidiarietà che la sostiene, per rendere i confini non ciò che, sic et simpliciter, divide, ma ciò che unisce per complementarietà, al fine di costruire un universale delle differenze: «di contro all’universalismo che disintegra ogni appartenenza» (p. 64). Solo un approccio di tal fatta, non meramente geopolitico ma geofilosofico, potrebbe essere in grado di riaprire la storia. Coutau-Bégarie, in un saggio contenuto in Appendice (gli scritti di questa sezione sono, per lo più, degli anni Novanta) ricorda, infatti, il tratto deterministico della geopolitica. Tale disciplina vive, ancora oggi, un’incertezza teorica: deve, pertanto, essere, a parere di chi scrive, integrata dall’approccio filosofico.
Del resto, come ricorda in uno scritto di grande suggestione, Michel Marmin, l’Euorpa si è sempre ritrovata sul piano delle arti e della cultura. Lo testimonia l’opera-ballet di Campra del 1697, che riduceva a uno: «l’incostanza e la vanità dei francesi, la fedeltà mistica degli spagnoli, la gelosia e la ferocia degli italiani e anche il machismo ombroso dei turchi» (p. 279). L’ “Europa galante” è ontologicamente polifonica. Tornò a farsi ascoltare nella musica di Roland de Lassus, di Jacques Callot, perfino nel Viaggio a Reims di Rossini, rappresentato a Parigi nel 1825: «È la creazione estetica che fonda l’europeo» (p. 283). L’affermazione ha straordinaria attualità, a nostro parere, in quanto viviamo, per dirla con Stiegler, nell’epoca della estrema miseria simbolica. La battaglia va portata sul piano dell’immaginario, decolonizzandolo dagli pseudo valori inoculati dalla Forma-Capitale. Chi scrive ritiene cha, allo scopo, anche la tradizione regionalista, il cui valore è ricordato nello scritto di Didier Patte, possa svolgere ruolo significativo. Si tratta di ripensare, in rapporto sussidiario, i valori locali, nazionali e imperiali. Un’ Europa possibile…