Quando Molière scrisse Il malato immaginario fece virare la sua vis comica intrisa di malinconia sul disincanto. Argante, il malato immaginario, è un uomo in bilico tra il despota ipocondriaco e il debole sprovveduto, che finisce nella trappola di Plauto. In una parola è pane per i denti di Salvo Ficarra. Pane buono se Salvo Ficarra ne tira fuori un personaggio di cui Molière sarebbe compiaciuto e uno spettacolo alla Ficarra. Ossia un elegante intreccio tra lazzi comici e irresistibile umanità. Un personaggio che senza Angelo Tosto, grandiosamente in scena per tutte le due ore dello spettacolo, sarebbe stato impossibile.
Angelo Tosto, attore catanese, che sembra pronto a prendere l’eredità di altri illustri Argante da Turi Ferro a Massimo Dapporto passando per Alberto Sordi, dà al personaggio molieriano intabarrato nella vestaglia del cuore e del portafogli ( a proposito belli i costumi e le scene di Francesca Cannavò) quella giusta misura che lo rende parto scenico. Ficarra, consapevole del piacere molieriano della scena al tempo del seicentesco “gran teatro del mondo”, riprende punto per punto la poetica del francese. Un eccesso di ubbidienza, mitigato dalla scelta di fare agire il teatro allo stato puro che per Ficarra è la struttura a gag. Che è come dire Moliere fa Ficarra. Diventa pop, come ha sottolineato il regista in conferenza stampa. Il risultato è una pièce brillante, ricercata nella messinscena, mai debordante, talvolta prolissa nella parte centrale. Il malato immaginario di Ficarra ha un sapore di commedia musicale della tradizione: non vuole stupire ma divertire. Scopo ambizioso e raggiunto. Divertire facendo pensare: chi potrebbe estirpare dalla comicità di Salvo Ficarra, alla prima prova senza Valentino Picone (la coppia fa ancora il totale?), quel retrogusto di umorismo pirandelliano che fiorisce nella scena teatrale migliore: ecco il personaggio di Beraldo (Filippo Brazzaventre) e la critica tutta contemporanea al negazionismo sui vaccini dentro la gag del finto medico che avvia allo scioglimento della commedia. Il finto medico è la serva Antonietta. Giovanna Criscuolo è eccellente, la migliore in scena insieme a Tosto e dentro un cast che funziona e convince, nel tradurre il motivo del servo astuto che si fa beffe del padrone. Arrivato dalla commedia di Plauto, Molière ha salvato la figura del servo dalla rigidità della coeva commedia dell’arte, dotandolo di nuove sfumature, di buon senso e perspicacia cui Ficarra ha aggiunto il gusto della mimica.
La gestualità, le coreografie (Giorgia Torrisi Lo Giudice), il raffinato fondale di ombre cinesi creano il doppio effetto della traduzione e della sperimentazione. Timida: Ficarra avrebbe potuto osare di più, visto che la sua regia è matura e mostra di poter dominare la scena, meno l’adattamento in qualche tratto sbilanciato tra la ricerca dell’effetto comico e la fluidità della storia. Ficarra appare talmente innamorato (come dargli torto?) dei sui attori da voler riservare a ognuno di loro un quadro da mattatore. Ed ecco i duetti esilaranti tra Argante e Antonia, i triangoli tra Argante, Antonia e Angelica (Anita Indigeno) o quello da pochade di Argante, la moglie Belina (Lucia Portale) e il notaio Malafede (Luca Fiorino, anche nel ruolo del farmacista Aulenti) o il riuscitissimo sipario dei Cagherai padre (Emanuele Puglia) e figlio, uno straordinario Giovanni Rizzuti nella caricatura dell’imbecille pedante, per non dimenticare il perfetto giovane innamorato Daniele Bruno o l’impostore dottor Fecis (Cosimo Coltraro). A proposito di pochade, Ficarra si affida al gioco delle porte tipico del genere inventando una scenografia da casa-ospedale, luminosa (le luci sono di Alfio Scuderi) e bianca in gioco con i colori accesi cangianti dello sfondo, che annulla la divisione in atti e serve a dare movimento scenico: da dentro a fuori e viceversa in orizzontale (i pochi oggetti scenici dalle esagerate forme comiche vengono tirati fuori e riposti all’interno degli scalini pavimento) e in verticale con i passaggi degli attori. E si affida alla suggestione della commedia musicale: non solo l’ambientazione anni ’60 che avrebbe necessitato di maggiore legame tra scena e dialoghi ma soprattutto nelle musiche. A Lello Analfino va il merito di aver creato una colonna sonora avvolgente e ironica. Si sente l’eco di Armando Trovajoli, del maestro del musical italiano, nella canzone di Angelica e Cleante il cui testo è adattato dalle parole di Molière. Lello Analfino regala a Ficarra un altro gioiello dopo “Cocciu d’amuri” per il film “Andiamo a quel paese”. Il cinema.
A Ficarra si potrebbe rimproverare per Il malato immaginario di non aver osato quello che fece Molière: recitare. Chissà, forse la scaramanzia o la più plausibile scelta di misurarsi dietro il sipario. Si potrebbe ma a starci attenti, Ficarra è entrato in scena portando in dono il cinema al suo teatro, a se stesso e al suo pubblico felice. I titoli di coda proiettati sullo sfondo mentre il cast avanza nel proscenio sono un “gran teatro del mondo” dell’arte, la contaminazione che Molière avrebbe gradito, andandosene via dal mondo meno amareggiato e un filino pop anche lui.