È uscito da pochi giorni il settimo episodio della serie Morosini, intitolato L’equivoco del sangue (Capricorno Edizioni). Giorgio Ballario, a che cosa si riferisce il titolo?
“Il titolo prende spunto dal sangue di un delitto, ovviamente, ma anche da un tema che percorre l’intero romanzo, cioè le conseguenze, spesso negative, talvolta anche drammatiche, delle relazioni fra coloni italiani e donne indigene, in Eritrea come nelle altre colonie. Relazioni dalle quali potevano nascere figli che erano per l’appunto “mezzosangue” e poiché erano frutto di unioni clandestine non avevano gli stessi diritti degli altri bambini”.
Dicembre del 1937, ad Asmara viene uccisa per strada la domestica di una facoltosa famiglia di coloni italiani, emigrati lì già a fine Ottocento. E Morosini viene richiamato dalla sua licenza a Massaua per indagare, sempre in compagnia del maresciallo Barbagallo e dello sciumbasci Tesfaghì. Sarà un’indagine complessa con molti punti oscuri e parecchie false piste.
“Come sempre il maggiore indaga cercando di unire ai metodi tradizionali i primi esperimenti di investigazioni scientifiche, all’epoca ancora rudimentali. Ma saranno altri elementi a mettere Morosini sulla strada giusta e solo alla fine del romanzo, perché prima, a lungo, lui e i suoi collaboratori brancolano nel buio”.
In cosa consisteva la pratica del “madamato”, ed era così diffusa nella struttura sociale coloniale in Eritrea?
“Era la consuetudine del concubinaggio, cioè della convivenza più o meno regolare tra un colono e una donna locale, una relazione non soltanto sessuale ma anche affettiva che spesso sfociava nella nascita di vere e proprie famiglie che però non erano unite dal vincolo del matrimonio. Tollerato nelle colonie, il “madamato” venne ufficialmente proibito per legge nel 1937, ma il il divieto venne perseguito in maniera molto tenue, diciamo “all’italiana””.
Come ti è venuta l’idea di scrivere una serie di gialli di ambientazione coloniale?
“Mi è venuta quasi vent’anni fa, quando mi ero messo in testa di scrivere un romanzo giallo e cercavo idee originali. Siccome il periodo coloniale mi è sempre interessato, anche per racconti familiari sentiti quando ero bambino, ho cominciato a studiare il fenomeno su testi dell’epoca e mi sono reso conto che le colonie africane erano uno straordinario scenario per un intreccio poliziesco. Oltretutto inedito, perché nessuno l’aveva mai usato. Così mi sono imbarcato in quest’avventura senza immaginare che sarebbe potuta diventare una serie di successo: il primo romanzo, Morire è un attimo, uscito sedici anni fa. Posso dire che il maggiore Morosini, che è “nato” nel 2008 e ha raggiunto un ciclo narrativo di sette episodi, è già adesso uno dei più longevi investigatori del noir italiano. E penso non sia ancora il momento di mandarlo in pensione”.
Lo studio di fatti, usi e costumi degli anni Trenta è maggiore dell’impegno che ci metti nella stesura dell’architettura narrativa?
“All’inizio lo è stato, senza dubbio. Si trattava di ricostruire un mondo scomparso, per fortuna ancora abbastanza vicino a noi tanto da aver lasciato testimonianze scritte, fotografie, film, giornali d’epoca, cinegiornali. E poi ho dovuto creare dei personaggi credibili e calati nello spirito del tempo, non solo il protagonista, Aldo Morosini, ma anche i suoi principali collaboratori, il maresciallo Barbagallo e lo sciumbasci eritreo Tesfaghì, più parecchi comprimari che ormai ruotano in modo fisso intorno a loro. Una volta approfondito lo scenario e i personaggi principali, il contesto è ormai consolidato, perciò negli ultimi romanzi – oltre a lavorare sempre a una cornice storica credibile e verosimile – ho cercato di mettere maggior cura nella storia e nell’intreccio della trama”.
Nei tuoi romanzi inserisci spesso personaggi storici realmente esistiti, in questo è la volta di Comisso, giornalista e scrittore: chi era?
“Giovanni Comisso è uno scrittore veneto ormai un po’ dimenticato (anche se adesso La Nave di Teseo sta ripubblicando alcuni suoi romanzi) che conobbe fama e successo negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma aveva iniziato molto prima, con buoni risultati, tant’è vero che quando incontra Morosini in L’equivoco del sangue è già un autore affermato e collabora con importanti quotidiani italiani. In questo caso, ed è ovviamente tutto vero, si trovava in Eritrea per conto della Gazzetta del Popolo. Dopo l’esperienza nella Grande Guerra era stato volontario a Fiume con D’Annunzio e aveva visto di buon occhio l’ascesa del fascismo, ma verso la fine degli anni Trenta era ormai deluso dall’esperienza politica e in parte censurato perché accusato di aver scritto un libro “disfattista” sulla prima Guerra Mondiale”.
Pochi scrittori di narrativa affrontano nei loro libri il tema del colonialismo italiano in Africa, anzi la tua serie resta ancora un unicum nel panorama letterario nazionale. Per quale motivo?
“Ci sono stati alcuni scrittori che si sono cimentati con il fenomeno, pochi a dir la verità. Penso a Carlo Lucarelli, che ha scritte nell’Eritrea ai tempo della disfatta di Adua; a Davide Longo con Mattino a Irgalem (che è più un libro sulla guerra, però), a Enrico Brizzi con il suo ucronico L’inattesa piega degli eventi e al romanzo storico I fantasmi dell’impero di Dodero, Panella e Consentino. E poi c’è il capostipite, Ennio Flaiano con il capolavoro Tempo di uccidere, che però è un libro del 1947 ed è quasi autobiografico, perché lui stesso combatté in Abissinia. Per il resto è vero, il fenomeno coloniale ha prodotto poca letteratura ed è un peccato. Con tutta probabilità dipende dalla tendenza culturale italiana di voler accantonare, quasi dimenticare quel periodo, vissuto come politicamente scorretto e legato al fascismo. Ed è falso, perché la presenza italiana in Africa risale alla fine dell’Ottocento e anche dopo la guerra, a colonialismo finito, decine di migliaia di italiani rimasero in Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia. In quest’ultimo paese, addirittura, le Nazioni Unite diedero all’Italia il compito di sovrintendere l’Amministrazione Fiduciaria dal 1950 al 1960 per accompagnare la Somalia verso l’indipendenza. Segno che forse non avevamo poi lasciato un ricordo così negativo”.
Complimenti a Giorgio Ballario per l’originalità del contesto e l’accuratezza della ricostruzione storica. Ci sono tutti gli ingredienti per una trasposizione televisiva….