“Alla tua età io saltavo i fossi per lungo!”, ci dicevano, probabilmente dando prova di scarsa delicatezza pedagogica, i nostri nonni, di fronte alle nostre turbe adolescenziali di figli e nipoti del boom economico; e qualcosa di simile potrebbero dire anche, se avessero voce al di fuori delle pagine immortali in cui vivono, le eroine di alcuni splendidi romanzi della letteratura di solo qualche decennio fa alle protagoniste di molti “comfort book” odierni.
La riflessione in questione sorge spontanea dalla lettura, ravvicinata nel tempo, di due recenti best-seller nipponici, “Butter” di Asako Yuzuki, e “I miei giorni alla libreria Morisaki” di Satoshi Yagisawa.
Il primo, tradotto in italiano da HarperCollins, è ispirato a un caso di cronaca nera realmente accaduto, quello della serial killer Kanae Kijima, chiamata “The konkatsu killer”, accusata di aver “preso per la gola” – in senso proprio e metaforico – alcuni suoi amanti anziani e facoltosi, uccidendoli dopo aver servito loro pietanze prelibate cucinate da lei. Il secondo racconta delle peripezie di Taeko, che, lasciata dal fidanzato e licenziata, finisce per prendersi un periodo sabbatico lavorando part-time nella libreria del suo eccentrico zio, a Jinbōchō. La triade, idealmente, potrebbe essere completata da “Finché il caffè è caldo”, di Toshikazu Kawaguchi, e rappresenta appieno il genere dei “comfort books” che spopola negli ultimi anni, in Giappone e non solo: libri di agile lettura, con una vena “motivational” rivolta ai disorientati lettori (ma soprattutto alle lettrici) di oggi.
Ciò che accomuna Rika, la protagonista di “Butter”, e Taeko, è la giovane età e un carattere vacuamente irresoluto, privo di guizzi, di tratti distintivi e di stimoli culturali, esaltato da uno stile di scrittura minimalista e immediato, ai limiti del “non finito”. Più che “larger than life”, dumber than life, insomma. Ben diversa la Taeko smarrita della libreria Morisaki dalla sua omonima, seduttrice e viveur, protagonista de “La scuola della carne” di Mishima, da Reiko, la machiavellica protagonista di “Musica”, capace perfino di ingannare il suo stesso psicanalista, e da Kazu, ambiziosa cinquantenne proprietaria di un ristorante, protagonista di “Dopo il banchetto”. Per non dire, valicando i confini dall’Estremo Oriente, delle protagoniste (o coprotagoniste) femminili di tanti romanzi occidentali novecenteschi: dalla Beloukia di Drieu la Rochelle alla Nada di Carmen Laforet, dalle “gemelle separate” Lolly Willowes di Sylvia Townsend Warner e Jenny, protagonista de “Lucifero e la Bambina” della prolifica Ethel Mannin, alle donne inquiete e selvagge di Ana Marìa Matute.
Sembra dunque che, proprio nell’era dell’emancipazione femminile, la narrativa abbia smesso di essere popolata da eroi ed eroine, come avveniva nel passato (gli “Eroi” di Thomas Carlyle, solo per citare un esempio), e anche da quegli antieroi e quelle antieroine che hanno preso il sopravvento nel primo ‘900 (si pensi ai romanzi di Italo Svevo, di Pirandello, ma anche al “Giovane Holden”). Anche gli ultimi sussulti di sessantottismo e di liberazione sessuale à la Merini – Ravera sono ormai, piaccia o meno, del tutto sopiti, per lasciare il posto a storie d’amore o di rinascita zuccherose e prive di sostanza, come un placebo, perfetto rovescio della medaglia rispetto alle nevrotiche e ipercritiche descrizioni della società postmoderna operate da Houellebecq e Lawrence Osborne.
Risulta poi particolarmente buffo che l’autrice di “Butter” metta in bocca all’unico personaggio vagamente anticonvenzionale, Manako – cuoca, manipolatrice e presunta assassina – una frase come “Ci sono due cose che io non riesco assolutamente a sopportare: le femministe e la margarina”, preferendo così alla dark lady ghiottona e sensuale l’insignificante e sciapa Rika – quasi una nuova Lucia Mondella, destinata però non al matrimonio bensì alla singletudine eterna.
C’è da domandarsi il perché di una simile deriva, insita nel filone stesso dei comfort book, che, secondo una sintetica ma efficace definizione del bookblogger Matteo Fumagalli “sono libri-shottino, da leggersi in un pomeriggio, che servono a fare compagnia”: viene da pensare, a mo’ di risposta, che il lettore (post)moderno, sempre bisognoso di certezze e di saggezza in pillole, non vada più spronato e sfidato a superare i propri limiti, bensì cullato nella bambagia con prodotti ad hoc, fruibili senza un minimo di sforzo e del tutto “innocui”, ideologicamente e spiritualmente.
Bei tempi quando il protagonista di un romanzo che ha fatto la storia della letteratura nipponica era un gatto – ci riferiamo, ovviamente, a “Io sono un gatto” di Natsume Soseki -, e il felino in questione era in grado di partorire, riguardo all’ambiente circostante, considerazioni assai più sfumate e raffinate di quelle di Rika e Taeko!