Nell’imminenza del 4 novembre e della ricorrenza della vittoria nella Grande Guerra, appare doveroso ricordare la triste storia delle migliaia di prigionieri caduti nelle mani degli Austro-ungarici.
Frutto di una dottrina ispirata dal generale Cadorna, si era consolidato il pensiero che chi si arrende lo faccia per codardia ed opportunismo, alla stregua di disertori e disfattisti. Per tali reietti non doveva essere speso tempo, denaro e attenzione. Giovanna Procacci documenta in Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra(Bollati Boringhieri) come i nostri militari, caduti in mani austriache, fossero considerati persone consegnatesi di proposito. Di qui la decisione del Regno d’Italia di non aiutarli, caso unico tra tutti i paesi impegnati nel conflitto.
Il fatto che questi soffrissero fame e stenti, assieme alla demonizzazione dei carcerieri, faceva gioco ai vertici militari per invitare i soldati al combattimento ed evitare che, al fronte, essi pensassero di poter scegliere e preferire la cattività agli orrori della guerra.
Il sostentamento dei prigionieri era affidato alle nazioni che li detenevano, ma la gran parte fu lasciata all’iniziativa della Croce Rossa e delle famiglie. Il collasso del sistema postale e la drammatica crisi alimentare nel continente provocò una drammatica riduzione delle razioni distribuite: l’Italia inviò 18 milioni di pacchi aiuto contro i 75 milioni della Francia, pur con un numero di prigionieri poco più cospicuo. Con il sopraggiungere dell’inverno i prigionieri cominciarono a morire a migliaia, principalmente di polmonite, tubercolosi ed edema da fame.
Dopo Caporetto, il Comando Supremo, in accordo con le autorità politiche, proibì l’invio dei soccorsi collettivi, vietando anche alla Croce Rossa ogni iniziativa a riguardo. Il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, arrivò ad affermare che i soldati catturati fossero “immeritevoli di qualsiasi aiuto e che, più che prigionieri, sarebbero stati considerati disertori”.
Un rapporto del Nunzio apostolico in Belgio e Lussemburgo descrive così una sua visita al campo di prigionieri di Liegi nel maggio 1918: “ I prigionieri italiani muoiono di fame. I pacchi dall’Italia non arrivano per ritorsione… Il cibo che i prigionieri ricevono dal campo è insufficiente. La cena consiste in una ciotolina di zuppa, acqua marroncina, senza amidi né verdure, un pezzo di pane e 7-8 centimetri di quello che da noi chiamiamo sanguinaccio. I vestiti, quelli che ancora esistono, sono sporchi e strappati. Sono stracci”.
Il prelato parla anche del suicidio di parecchi disperati. Lo stesso Nunzio suggerisce di aiutare i malcapitati, che stanno oggettivamente peggio degli internati di altre nazionalità, attraverso legazioni già presenti sul territorio. Esprime anche tutta la sua disperazione, affinché si trovi un sistema, “per aiutare in modo efficace e rapido gli sfortunati soldati italiani la cui situazione è deplorevole e necessita di un miglioramento immediato, altrimenti vedremo morire queste sfortunate persone che hanno commesso il crimine di aver fatto il loro dovere, servendo la loro Patria”.
Le contingenze di guerra, unite alla volontà di punizione da parte italiana, portò alla morte circa 100 mila prigionieri. Per i sopravvissuti il rientro fu altrettanto traumatico: valicato il confine italiano, gli ex prigionieri, debilitati dalla fame e dal lungo viaggio, erano fermati dai carabinieri e avviati ai campi di concentramento sparsi nella penisola.
Lì decine di migliaia di soldati e ufficiali rimasero per mesi, in condizioni sanitarie pessime, spesso esposti alle intemperie, in attesa di un interrogatorio che appurasse le cause della loro cattura.
Quasi 160mila reduci ebbero come prima accoglienza della madre patria un lungo soggiorno coatto, malnutriti, poco assistiti e sorvegliati da carabinieri armati. In questo modo altre migliaia trovarono la morte per malattia.