
Si dice che la condizione delle classi medie è in crisi, da ormai una trentina d’anni, e che per esse la mobilità è verso il basso, non verso l’alto. Qualcuno sarà in ascesa, ma in percentuale è una minoranza. Pure per la working class, operai e lavoratori poco qualificati, la situazione è peggiorata (delocalizzazione della produzione, immigrazione, automazione di molte funzioni, anche senza entrare nelle incognite della AI). I ceti ricchi han preso il volo e tendono a volare sempre più in alto. Le cadute comportano più una condizione di ‘parassitismo’ (più o meno palliata dalle famiglie) che di retrocessione alla working class, per giunta in contrazione, non solo disdegnata. Il concetto di mobilità sociale presuppone quello di gerarchia di importanza, di prestigio, di status, di ricchezza. Sinonimo di mobilità è quello di osmosi sociale, la permeabilità delle classi, e quello, ora un po’ abusato, di ‘ascensore sociale’ (sempre desiderato salendo). Cioè il processo che consente il cambiamento di stato sociale e l’integrazione tra i diversi strati che formano la società. Un quarto di secolo fa, Aldo Cazzullo scriveva su La Stampa (21.8.1999):
“Certo, essere giovane in una società in crescita, come quella degli Anni Cinquanta e Sessanta, è altro dal vivere nella società ereditaria dei Novanta, dove l’ascensore sociale è in panne e i figli ereditano, con i beni, anche il mestiere e lo status dei padri. Certo, la prima generazione a non aver fatto politica non ha conosciuto la scuola dove si formavano le capacità indispensabili ad assumere una leadership”.
Mobilità sociale e progressismo
Da allora la situazione pare decisamente peggiorata e ce lo ricordano quasi quotidianamente libri, blogs, interviste, propagande elettorali. Il tema diventa ideologia. La ‘società inclusiva’, cavallo di battaglia del progressismo, prescindendo dalla meritocrazia in nome di una edulcorata, premurosa eguaglianza ‘che nessuno lascia indietro’, si converte di fatto in un ostacolo proprio dell’ascensore sociale agognato. Una prevalente pedagogia alla don Milani (assai più che montessoriana) ha reso la scuola un ‘luogo’ di virtuosa socialità, non uno strumento di formazione. Del resto, la sinistra politica, imitata sovente dalle destre sociali, non solo italiane, sempre immagina e promette all’elettorato scenari ipotetici – ben oltre la libertà ottocentesca – nei quali (grazie anche ad una miriade generalizzata di nuovi diritti e di pochissimi doveri) tutti agevolmente salgono, migliorano e nessuno mai… scende! Salto qui e là e trascrivo qualcosa.
Giuliana Licini scriveva su Ilsole-24ore del 20 gennaio 2020, prima della pandemia Covid, ‘Mobilità sociale, Italia ultima tra i Paesi industriali. In testa Danimarca e Norvegia’:
“I Paesi con la maggiore mobilità sociale sono tutti europei. In Italia, invece, l’ascensore sociale è arrugginito e la Penisola è in coda rispetto ai principali Paesi industrializzati, anche a causa di una scuola dove manca la diversità sociale e di scarse opportunità di lavoro, soprattutto per i giovani, tra cui abbondano i Neet (acronimo inglese per Neither in Employment nor in Education or Training), non impegnati nello studio, né nel lavoro né nella formazione”.
Ascensore sociale rotto
Due anni dopo, il 2 dicembre 2021, la ricercatrice Elisa Berlin scriveva su The Vision (marxisteggiante), ‘L’ascensore sociale è rotto. Se nasci povero, in Italia, resti povero’. La ricchezza che più contribuisce al mantenimento delle disuguaglianze, per l’autrice, rimane quella che si trasferisce dai genitori ai figli. Nonostante l’Italia sia uno dei Paesi Ocse con la pressione fiscale più alta, nel 2019 è stata anche uno di quelli con il più basso gettito fiscale legato all’eredità (circa lo 0.1% delle entrate tributarie), in linea con un sistema economico strutturalmente fondato sui rapporti familiari e sull’accentramento dei capitali.
Mario Giacomo Dutto, autore di vari saggi in materia, ha poi redatto, il 18.9.2022, su Scuola7. La settimana scolastica. Una rivista online sulle tematiche pedagogiche e della scuola, ‘L’ascensore sociale bloccato. È la scuola il problema?’:
“Si direbbe un’espressione fuori contesto fin dagli anni ’70, quando rallenta la mobilità ascendente in crescita nei decenni precedenti. La prospettiva di scalare la piramide sociale ha un tratto ideologico. Si aggancia all’idea di società democratica, chiama in causa il merito e il riconoscimento dei talenti. La scuola è stata considerata come uno dei fattori più rilevante per la mobilità sociale. Ora è frequente invece l’annotazione che ‘la scuola non funziona più da ascensore sociale’ per via del degrado che l’ha impoverita, dell’inflazione dei diplomi. L’istruzione non sarebbe più in grado di assicurare l’accesso ai livelli superiori. L’ascensore sociale ha rallentato fino a bloccarsi”.
Sinistra e meritocrazia
La percezione nell’opinione pubblica della qualità dell’istruzione sarebbe un ingrediente decisivo per una società fluida, aperta ed equa, si ripete. Discorso, mi pare, un po’ ovvio, retorico, che dice verità, ma produce per risposta lamentazioni abborracciate. Oggi la scuola ‘inclusiva’ (per gli ‘ultimi’) promuove seminalfabeti o laureati che non sapran redigere neppure una lettera…
Giovanni Cominelli, laureato in Filosofia nel 1968, esperto di istruzione, già consigliere comunale e regionale del Pci, di area ‘migliorista’, oggi su posizioni liberal-socialiste, ha vergato un interessante articolo su ‘Libertà Eguale’ del 30 ottobre 2022, contro facilismo ed egualitarismo antimeritocratico, della maggioranza dei docenti odierni, ‘Ma il merito è un ascensore sociale’:
“Appare ben strano che oggi alla sinistra, sempre pronta a gridare al tradimento della Costituzione, il lemma ‘merito’ appaia così politically incorrect. Il merito è una conquista delle lotte storiche dei movimenti operai, così come lo era stata della borghesia rispetto al sistema feudale. I movimenti operai socialisti, comunisti, cattolici lo rivendicarono, riuscirono a strappare allo Stato liberale i primi provvedimenti relativi all’istruzione, sanità, assistenza. Diventati partiti, entrati nei governi, costruirono un sistema di Welfare, che dava a tutti la possibilità di farsi strada fino ai livelli più alti”.
In Italia è cresciuto il tasso di scolarizzazione, ma sempre troppo basso rispetto al resto d’Europa. Nella vulgata ministerial-sinistrorsa tutti gli insegnanti sono bravi allo stesso modo e tutti fanno il mestiere allo stesso modo. Puro pansindacalismo deteriore. Ricorda Cominelli:
“Quando Luigi Berlinguer avanzò nel 1999 l’idea di fare uno screening valutativo degli insegnanti, ne fu travolto e licenziato. Così, in nome della retorica dell’inclusione e dell’eguaglianza, il sistema di istruzione genera dall’interno e sottoproduce esclusione reale, cioè impreparazione, analfabetismo e frustrazione professionale. In misura particolare nella scuola meridionale. I ragazzi delle famiglie povere gironzolano nella piazza del paese con la pensione dei nonni e con il reddito di cittadinanza”.
Come si può rimediare alla scuola della diseguaglianza, quella che Luigi Berlinguer ha denunciato come ‘scuola di classe’? Propone Cominelli:
“Né la destra sociale né quella sovranista, né la sinistra politica e sindacale o populista dispongono delle risorse intellettuali e della volontà per rovesciare il modello di organizzazione dell’istruzione del 1859. Gli insegnanti devono valutare senza indulgenze e senza sconti il livello reale di acquisizione del sapere. Dire la verità ai ragazzi ed alle loro onniprotettive ed invasive famiglie. Solo la verità meritocratica è inclusiva, perché essa stimola i più poveri. Sapere e carattere sono i tiranti dell’ascensore sociale. Se gli insegnanti non sono esigenti e rigorosi, se non applicano il principio meritocratico, finiscono per danneggiare i meritevoli, ma privi di mezzi. Gli immeritevoli ricchi di famiglia trovano sempre una strada. Il lassismo ed il facilismo, praticati al fine dell’inclusione, si rovesciano in esclusione”.
La scuola obbligatoria in Italia
Mio nonno con la Terza Elementare d’un paesino dell’800 sapeva molte più cose dei figli e nipoti ‘Iphonizzati’. Scriveva senza commettere errori di sintassi, dei quali gli articoli dei media oggi abbondano… Ricordo, en passant, che l’istruzione obbligatoria venne introdotta in Italia durante l’epoca napoleonica: nel Regno Italico (1805) e nel Regno di Napoli (1810) la scuola si modellò su quella francese. L’istruzione primaria fu concepita come pubblica, obbligatoria e gratuita per tutti i bambini, maschi e femmine. Durante la nascita dell’Unità d’Italia, la legge Casati del 1859 istituì una scuola elementare (centralizzata, alla francese) articolata su due bienni, il primo obbligatorio. Legge ampiamente disattesa, specialmente al sud, dove, sobillati dai parroci, molti contadini non mandavano i figli a scuola, specialmente le femmine. Nella Grande Guerra avevamo circa il 40% dei soldati analfabeti, mentre la Germania praticamente nessuno. La Prussia militarista ed autocratica di Federico II (massone) aveva introdotto la scuola obbligatoria nel 1763 (per otto anni, obbligatoria e gratuita, per ambi i sessi). Similmente fecero gli altri Stati tedeschi.
Ciò letto di Cominelli, sono convinto che ben più che gli slogan della Rivoluzione (liberté, égalité, fraternité) o le stesse conquiste napoleoniche, furono il capitalismo e la II Rivoluzione industriale dell’800 a favorire la mobilità sociale e l’istruzione. Prima, ed in modo ristretto, saltuario, il meccanismo era delegato alla Chiesa, alle armi (mercenari, poi capìtani di ventura, prìncipi), alle conquiste coloniali. Un esempio quello della famiglia Torlonia. Il capostipite fu Marin Tourlonias, figlio di un agricoltore dell’Alvernia. Giunto a Roma nel 1750, assunto come cameriere dal cardinale Acquaviva d’Aragona, ne ricevette in eredità una rendita con la quale costituì l’azienda di tessuti e di prestiti, origine della fortuna familiare. Il figlio Giovanni Torlonia incrementò assai il patrimonio con speculazioni al tempo dell’occupazione napoleonica. Partiti i francesi, Giovanni offrì ai nobili prestiti garantiti dalle proprietà fondiarie ed immobiliari. Molte proprietà passarono ai Torlonia, e Giovanni ottenne dal papa Pio VII, nel 1814, il rango di Principe di Civitella Cesi. Con un’accorta politica di acquisizioni e matrimoni, i Torlonia s’imparentarono con le più antiche casate (Colonna, Orsini, Borghese) diventando la più ricca famiglia di Roma.
Il tema della mobilità sociale non è recente. Il 31.5-1.6.2024 nella Rocca Malatestiana, a Santarcangelo di Romagna, ha avuto luogo un Colloquio su ‘Fortunes and Misfortunes. Ascesa sociale e decadenza nel romanzo moderno’. L’incipit della Scheda del Colloquio:
“La mobilità che, dal ‘700 al 900, ha caratterizzato in forme sempre più estese la società occidentale ha trovato nel romanzo non solo la principale rappresentazione, anche la sua assiologia, la gerarchia ideale dei valori umani. Ad aprire la strada ai giovani provinciali ambiziosi è Jacob, il Paysan parvenu di Marivaux (1735), che giunge a Parigi dove fa fortuna. La sua non è ancora una strategia del parvenir. Lo è quella di Margot la ravaudeuse di Fougeret de Mombron (1750) che con la prostituzione arriva a costituirsi capitale e rispettabilità. Anche nella letteratura inglese il tema dell’ascesa sociale del personaggio verso lo status di gentleman o di gentlewoman nasce con il novel settecentesco. Accanto al genere picaresco, già Moll Flanders o le altre figure di Defoe sono protagonisti di ambizione e di mobilità. Con la Rivoluzione, l’ascesa sociale conosce una formidabile accelerazione e trova il suo mito”.
(https://www.sigismondomalatesta.it/In-evidenza.asp/idSigMa=51/desc)
Letteratura ed ascesi sociale
Il romanzo ottocentesco si appropria del tema in una forma più complessa di quella del ‘700. Il parvenir non si esaurisce più nel profittare di un caso fortuito, diventa una strategia. Così per Julien Sorel e per Rastignac in Papá Goriot di Balzac (1835). È la stagione del ‘romanzo di formazione’, allorchè un giovane svantaggiato, povero, provinciale, s’impegna con tenacia per essere accolto nella Parigi che conta. La stagione si chiude con l’Éducation sentimentale (1869) di Gustave Flaubert. In Inghilterra, nell’epoca vittoriana, una società basata sul successo e sul progresso industriale e finanziario, configura però negativamente il social climber. Le sue fortune, perseguite senza scrupoli, spesso si rovesciano in una caduta rovinosa. Prototipo di questa figura è Barry Lyndon di Thackeray (1844), avventuriero irlandese che tenta di ascendere ed appartenere all’aristocrazia. Prosegue, riassunta, la Scheda:
“Nel secondo ‘800, il più famoso parvenu è il Bel-ami maupassantiano. La strategia del parvenir torna a fondarsi sul fascino fisico e prevede come sbocco l’ingresso nel demi-monde. Nel giudizio morale ed estetico sul parvenu, conta quello sull’ambiente al quale egli aspira. Durante tutto l’800 si ritrova anche un motivo opposto a quello del parvenir: la decadenza aristocratica, ideologica e morale, il presupposto della sopravvivenza, come nel Gattopardo. Nel ‘900 il parvenir si associa ad altri temi, come lo snobismo. Non tanto arricchirsi: si desidera essere accolti da ambienti superiori, come per i personaggi della Recherche. Il parvenir si confonde nel processo di omologazione. In Dickens l’ascesa è dovuta alla fortuna (un’improvvisa eredità o una ricchezza acquisita), non tanto all’ambizione, che invece segna The Great Gatsby (1925) di Fitzgerald, con il modello narrativo di mondi socialmente a confronto”.
L’ascesa e la caduta dell’eroe, in una dimensione che non è solo storica, ma ideale, quella del Great Dream americano. Quello che ancor oggi ritroviamo alla base del ‘trumpismo’.