James Burnaham, teorico della “rivoluzione manageriale” apprezzato da Evola, è un pensatore statunitense nato nel 1905 e deceduto nel 1987. Un figlio del secolo XX, frangente storico caratterizzato da spinte ideali rilevantissime ma anche da eclatanti contraddizioni. Le medesime che, almeno apparentemente, attraversano l’ opera di Burnham, scienziato e filosofo della politica. Questi si formò all’università di Princeton e, qualche anno dopo, a Oxford ebbe per docente Tolkien. È stato professore di Filosofia alla New York University. Negli anni giovanili fu attratto dal marxismo e dal neopositivismo, divenendo, ben presto, seguace di Trotskij e della “rivoluzione permanente”. Nel catalogo di Oaks editrice è di recente apparso uno dei suoi libri più interessanti, Nel nome di Machiavelli. I difensori della libertà (per ordini: info@oakseditrice, pp. 276, euro 28.00). Il volume è impreziosito dalla introduzione contestualizzante di Francesco Ingravalle. Le tesi espresse in queste pagine da Burnham consentono di ricostruire il suo iter teorico-politico.
All’inizio del secondo conflitto mondiale lo studioso mise fine alla militanza socialista, convinto che il mondo capitalista non stesse affatto evolvendo verso la società senza classi, ma in direzione della società manageriale. Tale nuovo assetto socio-economico era il risultato della separazione sopravvenuta tra proprietà delle imprese e loro gestione, a tutto vantaggio di quest’ultima. Tale situazione inedita si era palesata durante la Prima guerra mondiale e, successivamente, a ridosso della crisi del 1929, con l’adozione delle politiche del New Deal. Il cambiamento era in atto in tutto il mondo, a causa del tratto globalizzante del capitalismo. Si trattava, nota Ingravalle, di: «una nuova società di classe strutturata sul potere dei manager» (p. XXI). Burnham legge il fascismo, il nazionalsocialismo e il comunismo quali ideologie manageriali. Il nuovo assetto avrebbe portato al superamento degli Stati nazionali, che sarebbero stati surrogati da istituzioni più ampie, sovranazionali, le quali avrebbero potuto condurre allo “Stato mondale” preconizzato da Jünger. Nel 1943, con la pubblicazione de I difensori della libertà, lo studioso individuava nella tradizione elitistica, rappresentata da Mosca e Pareto, una possibile via mirante alla “difesa della libertà” nel contesto della “società manageriale”.
Con la parola libertà lo statunitense si riferisce alla: «possibilità dell’individuo di difendersi “dall’esercizio arbitrario e irresponsabile del potere personale”» (p. XXV). Si badi, a suo dire, la terra della libertà è luogo del conflitto, dello “stato di natura”, nel quale si svolge il confronto fra più interessi che si pongono come comuni ma, in realtà, non lo sono affatto. Il volume è diviso in sei parti. In esse, l‘autore discute il pensiero politico di Dante, Pareto, Machiavelli, Mosca, Sorel e Michels. Il De Monarchia di Dante solo formalmente è, secondo Burnham, teoria politica ma, sostanzialmente, in quanto ideologia tesa a difendere la nobiltà declinante, ha tratto impolitico. In Machiavelli, al contrario, al centro della teoria politica “scientifica”, non sta più “l’uomo” in generale, ma l’ “uomo politico”. Tale distinzione è introduttiva rispetto a quella che vede contrapposti “tipo dirigente” e “tipo dominato”, essenziale per comprendere la funzione cruciale dei “Capi”. La lettura delle opere del Segretario fiorentino, al fine di risultare fruttuosa, deve tener in debito conto i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Da essa, si evince che, per il teorico del Principe, il miglior governo è quello “misto”: «ove vi è un continuo bilanciamento delle forze sociali e, quindi, vi è libertà» (p. XXVII). Il ruolo del principe si lega allo stato “d’eccezione”, all’epoca del Machiavelli rappresentato dalla possibile unificazione d’Italia.
Anche la lettura di Mosca chiarisce la necessità di rigettare qualsivoglia teoria monocausale dei fatti storici. Dirimente, nella sua visione, è la distinzione tra la minoranza dei governanti e la maggioranza dei governati: «Quali che siano le forme sociali e politiche, questa è la distinzione basilare» (p. XXVII). La Scienza politica, pertanto, deve avere quale oggetto d’analisi le classi dirigenti. In esse agiscono, all’unisono, una tendenza liberale e una aristocratica che, per poter funzionare efficacemente, devono esser poste nel giusto equilibrio. In tale contesto teorico ha grande rilevanza la posizione di Sorel. Il mito, l’immagine mobilitante le masse, è trascrizione vitale del conflitto di classe. Lo stesso Michels mostra un chiaro debito nei confronti dell’idea di conflitto individuata da Machiavelli, in quanto rileva, nella società primo novecentesca, l’indubitabile presenza di una lotta senza quartiere tra la tendenza oligarchica e quella liberale, definita “sostanza della democrazia”. Pareto, infine, conferma tale situazione polemologica: gli uomini, il più delle volte, agiscono non-logicamente, sotto la spinta dei sentimenti e degli impulsi, ai quali si sforzano di dare parvenza razionale, logicizzando i motivi non razionali del loro agire in società.
È naturale, quindi, che le classi dirigenti declinanti siano sostituite da quelle emergenti. Burnham era fermamente convinto che la democrazia liberale si stesse trasformando in una sorta di potere bonapartista, epidemico, lo avrebbe definito il filosofo Andrea Emo. Per questo, sarebbe risultato dirimente, a suo dire, lottare per: «affermare il principio della “difesa giuridica”(teorizzato da Gaetano Mosca) che difende l’individuo dall’esercizio arbitrario e irresponsabile del potere personale» (p. XXX). Perché tale difesa possa realizzarsi oggi, nel mondo della governance, le classi dirigenti e i popoli dovrebbero liberarsi del tarlo che li logora da decenni: vale a dire il rigetto preconcetto della storia europea e dei suoi valori di riferimento. Bisogna liberarsi della religione dei “diritti”, dalla denigrazione della nostra Kultur, imposta dal pensiero unico per ristabilire, sia pur precariamente, l’equilibrio formale delle forze in campo. Come in natura, anche nella storia tutto è perpetuamente in fieri.