Non è un caso se “Il Guardiano” di Harold Pinter sia la prima opera dell’autore londinese ad aver avuto successo di pubblico, nel 1960: il testo, infatti, tocca alcuni tasti universali. In primis, i tre protagonisti, immagine di altrettanti tipi umani (resi saggiamente in questo allestimento di Galano & Angelucci Marino dai costumi di Vize Ruffo): Aston, un ragazzo ingenuo e problematico, suo fratello minore Mick, giovane spregiudicato e in cerca di guadagni, e Davies, un barbone di mezza età, pigro e incontentabile.
Aston salva Davies nel bel mezzo di una rissa e gli offre alloggio a casa propria, lasciandogli addirittura le chiavi di casa quando è fuori per una commissione. Sarà proprio in quel momento, quando Davies è intento a rovistare tra gli oggetti di una casa non sua, che rientra Mick, accusandolo di essere un ladro o un abusivo. E’ così che inizia la vicenda. I tre si accorgeranno presto di avere qualcosa in comune: tutti loro sono dei falliti, incapaci di realizzare le proprie ambizioni, siano esse costruire un capanno in giardino, come per Aston, andare a cercare i propri documenti per Davies o trasformare la propria topaia in un attico fonte di guadagno, per Mick.
E’ appunto in questo buco, vecchio e scuro, che prende luogo tutta la vicenda: nella produzione del Teatro Stabile d’Abruzzo, con la collaborazione del Teatro del Sangro e del Teatro dei Limoni, l’abitazione, vecchia e cadente dei fratelli Aston e Mick, diventa quasi una gabbia, fatta di reti per materassi sgangherate e vecchi bancali. Questa scelta, dello scenografo Cristiano Russo, restituisce l’immobilismo dei personaggi pinteriani, che non riescono a sganciarsi dalla loro situazione di stallo e a raggiungere i loro obiettivi. La casa, chiamata “pollaio” dal barbone e “attico” dai suoi proprietari, è come un ring in cui i tre si affannano a combattere, in uno scontro però irreale, come se non ci fosse l’oggetto della contesa. Risiede proprio in questo l’archetipo della conflittualità pinteriana: c’è ma è senza fondamenti, cade nell’assurdo.
Gli spazi serrati sono anche immagine delle menti chiuse dell’umanità messa in scena: i tre basano la conoscenza e le azioni sulle loro idee preconcette, su stereotipi, razzisti e non. I personaggi sono terrorizzati dal diverso, da ciò che non gli è noto. Per questo il loro processo di conoscenza si sviluppa per categorie prestabilite, con pregiudizi quasi impossibili da scardinare. Ritorna in questo la sottile critica, politica e umana di Pinter: i personaggi sono chiusi e si illudono di imporre il proprio pensiero sugli altri, senza una reale possibilità di comunicazione tra le parti.
Questo senso opprimente di chiusura e di mancanza di vie di fuga è una cifra stilistica di Pinter: non sorprende, infatti, che nella motivazione della sua vittoria del premio Nobel 2005 per la letteratura si legga: “nelle sue commedie scopre il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti i giorni e spinge ad entrare nelle stanze chiuse dell’oppressione“.
I personaggi vengono connotati geograficamente dal punto di vista linguistico e questo restituisce loro una grande forza tragicomica ed espressiva. L’italiano con cadenza slava di Davies (Galano, molto efficace nel ruolo), il parlare cadenzato e cantilenato di Aston e il bipolarismo abruzzese-milanese di Mick (entrambi i fratelli interpretati con maestria da Angelucci Marino) non rispondono soltanto a esigenze sceniche, ma anche e soprattutto a esigenze di traduzione. Pinter crede moltissimo nell’uso della parola e su di essa lavora con precisione, partendo dal parlare quotidiano e cesellando poi ogni particolare: le sue pause, le sue esitazioni e le ripetizioni. E persino queste ultime, le famose e lunghissime ripetizioni pinteriane, diventano, grazie alla gestione dei tempi da parte degli interpreti, Angelucci e Galano, motivo comico, pur nella tragicità della trama.
I due fratelli propongono, in momenti separati, al clochard se vuole lavorare presso di loro come “Guardiano”, ma Davies sembra non essere incline al lavoro, chiedendo che vengano puntualizzati mansioni e titoli e continuando a lamentarsi degli spifferi, delle perdite d’acqua dal soffitto, delle nuove scarpe ecc. I due fratelli, dal canto loro, non sopportano la puzza di Davies e il suo strano modo di mugugnare durante il sonno. Banali zuffe da coinquilini, ma che si trasformano in paradigmi di mancanza di umanità ed empatia.
I due fratelli non compaiono quasi mai in contemporanea in scena nel testo: è da qui che nasce il pretesto per infiniti giochi di scambio e, al di sopra di tutto, una complessità psicologica del personaggio che si fa duale e poi ancora plurale, per apparire, infine e inaspettatamente, come singolare. La battuta finale strappa un sorriso e semina l’amaro, mostrando tutto l’animo tragicomico di Pinter.
Allestimento de “Il Guardiano” di Harold Pinter (traduzione Alessandra Serra)
Regia e interpretazione Roberto Galano e Stefano Angelucci Marino
Produzione Teatro Stabile d’Abruzzo
in scena ad Ottobre 2024 al Teatro Studio di Lanciano/ Treglio.