L’opinione pubblica e i mass media si soffermano spesso su un attore rilevante, controverso e discusso, radicatosi in Ucraina ben prima dell’inizio del conflitto innescato dall’aggressione russa del febbraio 2022.
Analizzare la sua natura, decifrarne l’evoluzione organizzativa e le strategie nel quadro di una propaganda bellica indirizzata anche dalle più moderne tecnologie è l’obiettivo del saggio “Nazisti o eroi? Il battaglione Azov tra stigmatizzazione e legittimazione” di Elena Sofia Reati, pubblicato nel numero 72 della rivista “Trasgressioni”.
Il ruolo del soft power quale strumento di risoluzione delle controversie internazionali e l’impegno di parti in causa orientate alla manipolazione dei flussi informativi e alla gestione mirata delle notizie, veicolate dalle autorità militari e politiche senza ricorrere necessariamente alla censura o alla menzogna, rappresentano il fulcro degli iniziali spunti di riflessione.
L’importanza della comunicazione emerge nella capacità di generare cambiamenti in senso polarizzante – non di rado grazie a dinamiche che facilitano l’isolamento delle opinioni degli individui da quelle diverse dalle proprie, con la conseguenza di renderle l’eco di se stesse – e nella pervasività di visioni del mondo potenzialmente influenti sulle sorti di una crisi politica, ossia di frames interpretativi che guidano il comportamento di gruppi e movimenti sociali oppure incentivano la codificazione di un evento in una maniera particolare.
La contesa tra Ucraina e Occidente da una parte e Russia dall’altro assume sotto questo aspetto i contorni della battaglia retorica, protesa a far prevalere narrazioni contrapposte, a legittimare il proprio operato e a squalificare quello degli avversari, sia sulla scorta di paradigmi consolidati da tempo in ambito politologico (come l’effetto rally around the flag) sia di tecniche che adoperano fatti storici per correlarli ad avvenimenti contemporanei, oppure che sfruttano i software dell’intelligenza artificiale per modificare e distorcere la realtà.
Azov, percorso di un’evoluzione sorprendente
I cenni al nazionalismo ucraino durante e dopo la fine dell’URSS e alla figura di Stepan Bandera – protagonista durante la seconda guerra mondiale di una breve e significativa collaborazione con i nazisti, riabilitato al punto da ricevere una sorta di glorificazione postuma in qualità di eroe della resistenza anti-sovietica – precedono l’individuazione delle principali cause del decadimento dell’apparato militare tra il 1991 e il 2013 nella carenza di fondi e nella pesantezza burocratico-amministrativa.
Tale contesto ha facilitato la formazione di gruppi paramilitari composti da membri della società civile, decisi a supportare esecutivi sempre più costretti sulla difensiva dalle minacce separatiste. La mancanza di una vera dichiarazione di guerra nel Donbass ha lasciato in sospeso lo status dei volontari e contribuito ad esacerbare una situazione già esplosiva e contrassegnata da vicende convulse, come le proteste dell’Euromaidan – provocate dalla mancata firma di un accordo di associazione con l’Unione Europea da parte del presidente Yanukovich, sopraffatto dall’ascesa di un esecutivo filo-occidentale – e l’annessione russa della penisola di Crimea.
In questo clima nasce il battaglione Azov, espressione degli ultras della squadra di calcio di Kharkiv e in sequenza di volontari provenienti da organizzazioni dell’estrema destra impregnate degli ideali xenofobi e nazionalsocialisti del suo fondatore Andriy Biletsky, arrestato per crimini violenti e beneficiario di un’amnistia riservata ai prigionieri politici.
Una volta cessato lo stato di emergenza, l’unità si apre ad elementi in maggioranza non ucraini, consolida il russo quale lingua ufficiale, ingrossa rapidamente le sue fila (molti affiliati si trasformano in ufficiali di polizia) e viene progressivamente integrata nell’esercito regolare; muta quindi pelle in reggimento speciale della Guardia Nazionale, è attiva nel reclutamento di nuovi soldati e si dota di un sistema tattico-operativo modellato sugli standard della NATO.
Rispecchia in altri termini una realtà poliedrica e multifunzionale, caratterizzata da una marcata politicizzazione confermata dall’istituzione di campi estivi per bambini e ragazzi; di una Milizia Nazionale, ispiratrice di spedizioni punitive contro i rom, della repressione della criminalità di strada e sostituita nel 2020 da Centuria, specializzata in attività di addestramento; del partito Natsionalnyi Korpus, costituito in gran parte da veterani.
Evidenti rovesci elettorali non impediscono a quest’ultimo di diventare il principale esponente del movimento, una rete politico-culturale in cui spiccano un’organizzazione giovanile, una casa editrice e strutture sportive e che si richiama a un nazionalismo incentrato su alcuni tratti specifici (identità etno-culturale, sangue, gerarchia, autorità, elitismo e tradizione), senza rinunciare a tentazioni riecheggianti teorie cospirative.
Il suo successo poggia in gran parte le basi su un redditizio approccio metapolitico che, evitando in apparenza la competizione partitica, si è insinuato nella società civile grazie all’appoggio di Arsen Avakov (ministro degli Interni dal 2014 al 2021), ma soprattutto sfruttando un sentimento d’appartenenza che si è saldato con una “narrativa della memoria” divenuta, nel frattempo, parte del mito eroico della mobilitazione contro la Russia.
Le più recenti cronache indicano ampiamente che i media – compresi quelli italiani – attingono sempre più a quest’ultimo frame per rappresentare Azov, abile nel corso del tempo a perfezionare le proprie modalità di presentarsi in pubblico, prendendo in prestito da un lato il linguaggio liberal-democratico del riformismo e attenuando dall’altro l’estremismo attraverso l’utilizzo di una retorica più moderata.
Il ricorso al doublespeak è propedeutico a un processo di ridefinizione del brand che trova riscontro in indicatori precisi, basti pensare al mutevole atteggiamento verso l’antisemitismo e alla sostituzione di taluni simboli nazisti (Wolfsangel, sole nero) con uno stemma a tre spade.
La massiccia presenza mediatica ha consentito lo sdoganamento nel discorso politico di slogans e linguaggi scomodi, permettendo inoltre al movimento di catalizzare intorno a sé una non trascurabile visibilità nel corso dello sforzo umanitario compiuto durante la pandemia da Covid-19.
Aspetti peculiari della mobilitazione dei gruppi di destra – crescente uso dei social e di Internet, numero sempre maggiore di militanti donne – hanno consentito l’affermazione di nuove figure: è il caso di Olena Semenyaka, che persegue l’obiettivo di proiettare Azov in una dimensione internazionale tramite la riattivazione del mito dell’Intermarium, un’unione politica di paesi conservatori favorevoli alla rinascita spirituale e alla riconquista dei valori tradizionali di una Pan-Europa contrapposta al liberalismo culturale.
L’interessante lavoro di Reati illustra in modo chiaro un fenomeno complesso e per certi versi poco conosciuto, contraddistinto da una trasformazione derivante da una strategia ponderata che è stata agevolata dall’inedita tolleranza dei media e dell’opinione pubblica, a dir poco stridente con le pesanti accuse di crimini di guerra e torture mosse dall’Alto Commissariato ONU per i diritti umani, dall’OCSE e da organizzazioni non governative.
Malgrado l’innegabile matrice nazista, l’evoluzione strutturale ha avuto un grande impatto non solo sulle modalità comunicative della formazione di Biletsky; ad oggi pare, infatti, che lo sforzo di ripulitura dell’immagine sia stato coronato da successo e che l’andamento del conflitto abbia rinvigorito il nazionalismo radicale ucraino, creando i presupposti per un considerevole aumento dei suoi consensi.
Causa sbagliata, in ogni caso.