L’articolo su barbadillo.it di Francesco Bergomi, dedicato alla biografia di Pierre Loti scritta da Lesley Blench (Medhelan), mi ha ricordato il primo romanzo che lessi di Loti, Aziyadé. Il libro era apparso nel 1879; in Italia uscì per l’estetizzante editore Franco Maria Ricci nel 1971.
Aziyadé è ambientato nel declinante Impero ottomano. Personaggi: un francese turcofilo, alter ego dell’autore, e una giovane circassa, alla deriva contro la trama inconsapevole della vita, a cavallo tra due continenti e tra politica e poesia.
A oltre mezzo secolo da quella mia lettura di Loti, mi chiedo se lo scrittore ritrovi attualità lungo la parabola discendente della Francia, dell’Europa e dell Occidente, sui piani demografico, economico, militare e culturale.
Infatti c’è un’accelerazione verso un futuro globale, sì, ma molto diverso da quello che la generazione di Loti e i suoi ammiratori (Gauguin, Nietzsche, Proust, France, James) potevano immaginare.
Negli ultimi decenni, ricchezze indicibili si sono spostate dall’Occidente all’Oriente, mentre nazioni come Cina, India, Indonesia e Vietnam (che Loti, da giovane ufficiale di marina, col suo vero nome di Julien Viaud, aveva conosciuto) sono destinate a raggiungere nuovi livelli di crescita e fiducia nelle loro rispettive capacità.
Nel 1923, mentre Loti moriva a Hendaye, dalle ceneri ottomane emergeva la nuova Turchia, vittoriosa e spietata nei confronti delle minoranze greca e armena (che nei suoi scritti stambulioti Loti disprezzava).
Sulle alture di Istanbul un viale, fiancheggiato da tombe e lapidi, porta dalla piazza della moschea di Eyüp all’omonima collina: qui, sulla sommità, è il piccolo caffè “Pierre Loti Kahvesi”. Da lì si domina la megalopoli: un indizio o forse un segnale, rivolto a nuove generazione di lettori, esposti ai richiami della cultura della cancellazione (o ridimensionamento) di ciò che è occidentale, sulla accettabilità dello scrittore francese, che come pochi descrisse l’atmosfera d’Oriente, fino a desiderare di farsi turco.