Dopo molti anni d’attesa è finalmente partito, anche nel nostro Paese, il Productivity board italiano (Comitato Italiano per la Produttività). L’organismo, voluto dall’Unione Europea, con una “Raccomandazione” del Consiglio risalente al settembre 2016, è stato – per ben otto anni – messo da parte. Ora qualcosa si muove.
Il primo incontro d’avvio si è tenuto presso il CNEL, sotto la presidenza di Renato Brunetta. In pochi sembrano essersene accorti. La notizia non è proprio da prima pagina, eppure le questioni sul tappeto, a cui il Comitato dovrebbe dare risposta, non sono da sottovalutare per la loro portata generale e per il rapido mutare dei “contesti” socio-economici, nazionali ed internazionali.
Negli ultimi 10-15 anni il mercato del lavoro in Europa è cambiato radicalmente. C’era un eccesso di offerta e ora non c’è più. Il sistema produttivo, sull’onda della Rivoluzione tecnologica, si è trasformato significativamente. La questione della produttività è diventata una questione non solo di efficienza ma di volume. E’ sempre più necessario garantire un costante aggiornamento delle skills (competenze) dei lavoratori, il potenziamento dei servizi sociali e del welfare ed il coinvolgimento dei corpi intermedi. Lo ha evidenziato di recente anche il Presidente della Banca d’Italia, Fabio Panetta, che ha sottolineato come per avere più crescita e più produttività sia necessario puntare sulla coesione sociale, sull’inclusione, sui diritti, con una particolare attenzione alla questione redistributiva, laddove va garantita un’equa e sostenibile ripartizione dei guadagni di produttività.
“L’istituzione al CNEL del Comitato nazionale per la produttività è un passaggio molto significativo. Abbiamo messo in piedi un gruppo di lavoro altamente qualificato, che si focalizzerà inizialmente sulle questioni in cui è maggiore il rischio di policy failure. Il Comitato produrrà aggiornamenti periodici, veicolando poi le proposte che emergeranno dagli studi e dai paper di ricerca. Si conferma così il ruolo del CNEL quale luogo di reale coinvolgimento dei corpi intermedi. Sul tema produttività il dialogo con le parti sociali è fondamentale” – ha affermato il consigliere Carlo Altomonte, presidente del Comitato nazionale per la produttività del CNEL, durante la prima riunione del Comitato.
Come si può, del resto leggere, negli indirizzi della UE, che stanno alla base dell’istituzione dei comitati nazionali per la produttività, aumentare la produttività è una sfida complessa che richiede un insieme di politiche ben equilibrate, intese, in particolare, a sostenere l’innovazione, rafforzare le competenze, ridurre le rigidità dei mercati del lavoro e dei prodotti, oltre che a consentire una migliore assegnazione delle risorse.
Per quanto sia necessario migliorare la resa produttiva e competitiva in tutta l’Unione, in questi anni è emerso che gli Stati membri dell’Unione possono essere particolarmente soggetti a un eventuale aumento e a un’improvvisa correzione degli squilibri macroeconomici che rischiano di ripercuotersi su altri Stati membri della zona euro (pensiamo all’attuale crisi economica tedesca) e Stati membri non appartenenti alla zona euro.
In questo contesto il Comitato svolge attività di analisi, ricerca e valutazione della produttività del sistema economico nazionale, al fine di suggerire politiche e riforme per migliorare la competitività del Paese, in ottica nazionale ed europea. Inoltre, ha il compito di mantenere i rapporti istituzionali con gli omologhi degli altri Paesi europei. Tutto questo guardando ai corpi intermedi in quanto soggetti attivi e competenti all’interno del sistema produttivo.
L’auspicata coesione sociale non può non passare attraverso i corpi intermedi, opportunamente valorizzati. Da qui la necessità di ritrovare il loro valore “rappresentativo”, in quanto organismi di prossimità al di fuori delle sedi istituzionali, capaci di creare reti in modo autonomo dalla sfera statale, ma favorendo – nel contempo – l’integrazione del singolo e dei gruppi d’interesse con la macro-entità statuale. Sono – in sostanza – la voce dei territori, degli interessi “reali” dei produttori e della complessità sociale, che chiede di essere “rappresentata”, riconosciuta e valorizzata.
La Costituzione ne parla all’articolo 2, individuando nelle “formazioni sociali” il luogo dove si svolge la personalità dell’uomo. In molti sembrano essersene dimenticati, nel nome di un’umanità “senza vincoli”, sradicata, permeata di individualismo e di fiducia incondizionata nella disintermediazione sociale e politica (in sostanza fare a meno il più possibile di intermediari), e proprio per questo più debole.
Franco Bassanini, Tiziano Treu e Giorgio Vittadini nell’introduzione di Una società di persone? I corpi intermedi nella democrazia di oggi e di domani (Il Mulino, 2021) alcuni anni fa chiedevano: “Può il nostro Paese (e più in generale possono le democrazie mature dell’Occidente) fronteggiare le grandi sfide del nostro tempo – la competizione globale, il cambiamento climatico, la rivoluzione digitale e tecnologica, le migrazioni di massa – senza il contributo delle formazioni sociali intermedie, capaci di organizzare la partecipazione alla vita politica e sociale, di mobilitare energie dal basso intorno a obiettivi o interessi comuni, di supplire o mitigare gli effetti dei fallimenti dello Stato e del mercato? E si può superare la crisi di legittimazione e rappresentatività delle istituzioni politiche e dei partiti democratici senza un rinnovato protagonismo dei corpi intermedi nella organizzazione della partecipazione dei cittadini alla formazione degli orientamenti e delle scelte politiche?”.
Maurizio Sacconi (nel suo libro-intervista Passato, presente e futuro della rappresentanza di interessi , Adapt University Press, 2022) ha guardato ai “corpi intermedi” quali espressione di una “rappresentanza forte, plurale, partecipata, libera, diffusa”, in grado di evitare un ritorno allo Stato espressione di una Società atomistica, composta da individui singoli e irrelati.
Nella necessaria “ripresa” di attenzione nei confronti dei corpi intermedi, per troppi anni sottovalutati se non boicottati, il Comitato produttività può essere di grande aiuto, sia per le attività di analisi sia per testare nuove misure, che possano poi tradursi in riforme. Ma soprattutto per creare nuovi percorsi partecipativi, capaci di rispondere alle tante emergenze produttive con cui periodicamente dobbiamo fare i conti. Ben oltre la contrattazione collettiva e gli accordi tra le parti sociali, c’è insomma uno spazio importante di analisi/prefigurazione e d’intervento per le categorie produttive organizzate. Ora si tratta di passare dalla teoria ai fatti.