Brigitte Bardot che recita due versi de La mort du loup al funerale di Alain Delon [Francia, estate 2024] potrebbe costituire -da un punto di vista poetico- un segnale e un sintomo.
Che cosa segnala la citazione che l’attrice trae dalla lirica di Alfred De Vigny? Tirare in ballo il lupo significa spostare il baricentro verso le tendenze predatorie della propria natura? Sul piano sovrapersonale, è significativo osservare dove l’umanità in quanto specie abbia sempre potenziato le propri abilità di predazione (non solo di risorse materiali) perché sospinta da una insaziabilità (la cosiddetta fame “da lupo”) che si è autonomizzata (divenendo sistema) e che perciò non sente ragioni: nello scenario attuale, individui, soggetti commerciali economici finanziari e potenze geopolitiche “mostrano i denti” le une le altre, come forma di segnalazione.
Questi segni però sono anche dei sintomi: come altre volte in passato, Homo Sapiens lascia trasparire i tratti di una condizione generalizzata, quella che il filosofo Hobbes definì con formula perfetta “homo homini lupus” (ogni uomo è un lupo per l’altro uomo); un mondo cioè in cui i comportamenti slealmente ferini, a suo tempo immortalati dalle favole morali di Esopo e di Fedro, vengono prima istituzionalizzati dal moralismo stoico che accetta il destino crudele, poi trasformati dalla “massima” liberale di Mandeville (i vizi privati sono pubbliche virtù) e infine organizzati con l’aggravante di essere sistemici, interrelati – oggi, nella forma globale del web quando essa riverbera la propria natura dark ossia mostra di essere soprattutto una rete di predatori, accesa 24h per 365 giorni l’anno. Tana di ragno e covo del lupo.
Un recente studio di D.S.Sapienza e L.Pavolini, dal titolo “Nelle tracce del lupo” (Ediciclo, 2024; pp.192 €15) funge da bacchetta di rabdomante per chi voglia scoprire le falde zoomorfe che giacciono nel profondo antropologico dei nostri giorni: per capire su quali deprivazioni affettive si generano i comportamenti sociali di chi ha paura del “lupo cattivo”.
Tra gli archetipi dell’inconscio soggettivo, infatti, là dove scaturiscono le azioni umane che hanno base involontaria, esiste anche il sentimento della preda. Chi ne è dominato, prova l’effetto della reazione “da cervo”, pulsione irriflessa che spinge gli arti a scattare via subito, il più lontano possibile, non appena l’olfatto ha il sentore del lupo. Come se percepisse già le zanne infitte nella polpa delle carni, la preda sfugge via rapida per istinto nativo: è il senso del daino, come amerei definirlo, con il nome un animale-totem da allevare in sé stessi, in funzione metabletica mentre imperversa questo “tempo da lupi”. Perché il grazioso ungulato erbivoro, abitatore delle solitudini boschive, recessivo e discreto nella fruizione dell’habitat è oggi (come ieri o domani) l’antidoto alla ferinità: sosteneva Melitone di Sardi, esprimendo una concretissima allegoria medievale, che il daino raffigura il Cristo nel suo corpo (“in corpore suo”). Già nel Deuteronomio [14,5] era catalogato al terzo posto tra gli animali puri.
Il senso del daino. L’esistenza carsica di questo filone archetipico è attestata dal folklore irlandese e dall’agiografia, alle origini dell’evangelizzazione europea; la “Lorica” ovvero “Corazza di san Patrizio” (attribuita al monaco del V secolo) canta in un lungo estatico inno le paure ancestrali e la sensazione di protezione concreta dell’animo celtico che viene cristianizzato mediante il più pagano dei prodigi: la trasformazione istantanea del corpo umano nel corpo di un daino (cfr. “The Deer’s Cry” di Arvo Pärt ne è la postmoderna colonna sonora) nel momento del pericolo, dell’aggressione da parte di un predatore, spirituale in questo caso.
Ma più che di vittime sacrificali o selvaggina, ora abbiamo bisogno di lunghe falcate elastiche, come quelle dei daini (quiete presenze quadrupedi nel santuario mṛgádāva di Sārnāth) che lascino i metaforici lupi con la lingua penzoloni: sono sensazioni sottili, che prescindono da adesioni religiose o da schieramenti ideologici – ma che aleggiano come dei suggerimenti impercettibili e permettono di salvare la pelle dell’animo (la pelle di daino è perfetto pulitore dei cristalli), di evitare la morte del cuore (con il cuore di daina, il cacciatore inganna la matrigna che gli aveva ordinato di uccidere la figliastra).
Daini a Phoenix Park (Dublino)
Dal Duecento toscano, da quando la pressione del capitalismo nascente si fece intollerabile, ci giunge la celebre narrazione del “lupo di Gubbio”: il protagonista del XXI Fioretto di San Francesco, al quale l’asceta di Assisi si rivolge per dieci volte chiamandolo “frate lupo” e lo ammansisce. Qui spicca il dono di empatia comunicativa creaturale, dato che all’animale manca solamente il dono della parola (ma non della comprensione del linguaggio umano – come postulano tutte le tradizioni native nordamericane) ma sa stipulare il patto con il Santo posandogli “il piè ritto” cioè la zampa nella mano; e sul finale emerge la venatura rivoluzionaria, già in nuce alle origini: il cronista riferisce come il lupo avesse seminato la sventura sbranando e aggredendo solamente perché affamato: cosa che consente a Francesco d’Assisi di dare la prima spiegazione marxiana del fenomeno della predazione, quando rivolgendosi all’animale gli dice: “io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male”. Il lupo di Gubbio, nutrito a turno dalla popolazione sbigottita, morirà di vecchiaia dopo essersi aggirato per le vie della città umbra, “mansueto” e quasi controfigura del Santo.
Altri archetipi, tuttavia, ai giorni nostri esaltano le menti mediante la figura del lupo: l’addestramento di molte generazioni di studenti italiani è avvenuto al liceo. Sul piano etimologico, “liceo” viene dal luogo in cui Aristotele teneva le sue lezioni, presso il tempio apollineo “del lupo”: la “licealizzazione” della scuola italiana (attuata alla Riforma Moratti/Gelmini con il D.P.R. 89/2010) ha portato più effetti negativi che altro, andando ad abolire quegli istituti di istruzione secondaria di secondo grado in cui gli stili cognitivi meno predatorii potessero apprendere e maturare.
Del resto, è a scuola che gi italiani si accostano alle due rappresentazioni poetiche del lupo, entrate nella cultura generale nazional-popolare: entrambe declinate al femminile, hanno una curvatura semantica verso lo spregevole: sono la magrissima e famelica lupa dantesca (una delle “tre fiere” che sbarrano il passo, nel Canto I dell’Inferno) e la famelica e magrissima lupa di Verga (la Gnà Pina, donna siciliana dalle insaziabili passioni, protagonista di una delle novelle più note). E siamo tornati, ad anello, al punto di partenza.
La figura retorica della preterizione è magica: permette di parlare di una cosa… tacendone. Tralascerò pertanto di trattare gli altri due casi, clamorosi, in cui nel Novecento ci si è lasciati ispirare dall’archetipo lupesco: in Italia con la denominazione di “figli della Lupa” e in Germania sotto la sigla di Wehrwolf, i licantropi e i lupi mannari, fuori di ogni letteratura, sono entrati nella storia.
P.S.
Un lupo percorreva un pianoro al tramonto. Camminando, prese ad ammirare la propria ombra che diventava sempre più lunga. – Uno come me, non dovrebbe mai temere un leone! Guardate! Sono più alto di una casa!
E, pieno d’orgoglio, aggiunse: – Presto sarò il re di tutti gli animali!
Ma proprio allora arrivò il leone che, per nulla impressionato da quell’ombra gigantesca, divorò il lupo in un solo boccone.
(Favole di Esopo; Einaudi ragazzi, 1994 p.16)