In una delle scene che più restano impresse dell’atteso biopic nelle sale in questi giorni, “Limonov” di Kirill Serebrennikov, il protagonista riferisce a una delle mille comparse nella sua vita un presunto commento su di lui di Baryšnikov, che lo definiva “solo un altro russo”. Limonov non sembra disprezzare la definizione, sicuramente sprezzante, del ballerino che qualche anno prima era diventato cittadino naturalizzato statunitense, e anzi, la fa propria, ribadendo: “Esatto, sono solo un altro russo”, e ripropone questa sua alterità rispetto ai “russi da salotto” anche in uno scambio di battute con Erofeev, invitato a cena nella casa dove Limonov stesso faceva da maggiordomo a un magnate americano.
E però nel film di Serebrennikov Eddy, Edička, Eddy-baby non sembra affatto “solo un altro russo”. Per un verso perché la vita del protagonista sembra tutt’altro che ordinaria, già dai suoi esordi da teppista a Kharkiv, e per l’altro perché nei primi due terzi del film c’è davvero poco di russo, se non qualche accenno, molto di maniera. Nell’adolescenza sovietica di Eduard Veniaminovic Savenko (così si ostina a chiamarlo il sempiterno membro del KGB/FSB anche dopo l’invenzione dello pseudonimo “Limonov”, ispirato alla granata Limonka) e soprattutto nella tormentata storia d’amore con Elena c’è decisamente più di parigino e americano che di russo, e lo stesso si può dire della fase corrispondente al provocatorio – e solo parzialmente compreso come tale, parrebbe – “Al poeta russo piacciono i grandi negri”.
Dunque più che “solo un altro russo” nei vent’anni di sesso, droga e rock & roll allo spettatore pare di guardare “solo un’altra rockstar”, o “solo un altro beatnik”, un Allen Ginsberg o un Robert Mapplethorpe, complici le scelte riguardo a colonna sonora e inquadrature, più affini a “The Dreamers” che a “Leningrad Cowboys” – senza dire della tremenda somiglianza del giovane Limonov (peraltro ben interpretato da Ben Whishaw) con Steven Tyler degli Aerosmith!
Cosa non funziona nella pellicola
Quello che però pare l’“errore” centrale del film, che poi a cascata finisce per influenzare tutta la pellicola, è la sproporzione fra la prima e la seconda parte, quella riguardante la fase più propriamente nazbol e de “L’altra Russia”, errore forse implicitamente riconosciuto per mezzo di una sorta di intermezzo meta-cinematografico dove l’attore esce ed entra dalle finestre di alcuni edifici in fiamme, che lo portano di volta in volta sullo scenario di un diverso fatto storico saliente degli anni ’80, traghettando direttamente lo spettatore negli anni ‘90. Di conseguenza, la parte più interessante e, potenzialmente, più incendiaria e autenticamente russa di Limonov, quella della dissidenza (seppur vissuta a modo suo) e della colonia penale (dove scriverà “Il trionfo della metafisica”) e quella del sodalizio con Dugin – appena visibile in un vedo-non vedo sullo sfondo di un paio di inquadrature – risulta compressa e anche “depotenziata”, epurata di episodi più o meno rilevanti, sicuramente considerati urticanti per l’impressionabile pubblico occidentale – si pensi alla presenza in Bosnia-Erzegovina al fianco di Radovan Karadzič, o alla vicenda sentimentale in tarda età con una giovane punk forse appena maggiorenne.
Se quindi, da un certo punto di vista, il film di Serebrennikov è un’occasione persa, specialmente per chi il personaggio di Limonov lo conosce da tempo, risulta sicuramente godibile per gli spettatori sufficientemente ignari. E sicuramente Limonov, che già nel 2018 a margine di una presentazione milanese del suo “Zona Industriale”, aveva dichiarato, a proposito del romanzo di Carrère, che “È una sua opera. Non deve piacermi. Carrère mi ha visto così, io non mi vedo come mi descrive, ma non è importante, perché lui per me ha fatto una gran cosa. Mi ha presentato al pubblico di massa. Il suo romanzo è stato tradotto in 35 lingue”, e anche “Del ‘Limonov’ di Carrère ho letto le prime 45 pagine e mi sono state sufficienti. Io non scavo dentro di me, lascio agli altri il diritto di vedermi come vogliono” non si sarebbe aspettato niente di più di questo.
D’altra parte, cosa c’è di più autenticamente trasformista e libertario che lasciare al singolo artista, e al singolo spettatore, la libertà di tutto, compresa quella di immaginarci?