Che Euripide avesse pensato a Elena, figlia di Zeus e Leda e moglie di Menelao, come un personaggio tragico straordinario ce lo insegna anche il lungo elenco di interpretazioni, rifacimenti, messinscene, traduzioni della sua tragedia che dal 412 a. C. ha scosso il teatro tragico, sebbene non fosse l’unica tragedia a lieto fine. Che, poi, nel 2019 la fortuna teatrale e, perché no, ermeneutica sia arrivata a Davide Livermore che ha creato per la Stagione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico l’indimenticabile allestimento del non ritorno, fa parte ormai della storia del teatro tragico contemporaneo. Dopo Livermore, se non proprio il diluvio ma sfide epocali certamente.
Ci prova Nicasio Anzelmo, regista di origini siciliane già Direttore Artistico del Teatro di Segesta, con la forza della sua idea di teatro, realizzata attraverso messinscene che spaziano dal classico al contemporaneo con un occhio attento alla sperimentazione del caos, tanto da far suo il pensiero del grande attore Luois Jouvet “Il teatro vive nel disordine: è la sua condizione di esistenza. La grandezza del teatro è fondata su un disordine organico, necessario, permanente…l’opera più viva confessa una contraddizione permanente, un disordine essenziale.”.
Concetto perfettamente applicato in “Elena”, andata in scena domenica scorsa al Teatro Massimo di Siracusa nell’ambito del Festival Mediterrartè – Classico Contemporaneo.
La tragedia a lieto fine di Euripide diventa una sorta di musical comedy senza tradire in altezza i temi euripidei: la vanità, l’inganno, il doppio. Tragedia della conoscenza, la regina di Sparta fuggita a Troia è ora essere umano ora nuvola, l’eidolon per cui i Greci e i Troiani hanno perso vite e regni. Cosa ci concedono gli dei di conoscere? E’ questa la domanda di “Elena” e Anzelmo risponde calcando la mano sull’ironia (il doppio, oblige) del testo greco.
Dentro una scenografia, qui racchiusa nello spazio di un palcoscenico mentre le tragedie classiche esigono i teatri di pietra, che pare non fare a meno di suggestioni livermoriane- i triplici specchi con tutta la loro evidenza simbolica occupano il fondo della scena delimitata da strutture metalliche avvolte di spirali di tessuto rosso e nero o la foggia della tomba di Proteo al centro della scena come sono le movenze della serva- appaiono personaggi assaliti dalla passione più che dal dolore. Tutta la rappresentazione punta sulla passione, servita dai costumi di un rosso talvolta ridondante firmati come le scene da Vincenzo Lamendola, dei protagonisti. Il triangolo borghese tra Elena (Silvia Siravo possiede il personaggio), Menelao (Ruben Rigillo a tratti poco convincente) e Teoclimeno (bravo Alessandro D’Ambrosi) si consuma senza delirio ma con toni un po’ da pochade, un po’ da enfasi tragica. La stessa mescolanza dei toni si avverte nel testo su cui il regista ha operato basandosi su varie traduzioni.
La storia d’amore offre al pubblico un accenno di carnalità finchè approda nell’inganno ordito dalla furba Elena: fingere una cerimonia funebre in mare per Menelao e poi fuggire via con la nave equipaggiata dal gabbato Teoclimeno, re dell’Egitto. Qui la messinscena s’affretta sul registro drammatico con spruzzi garbati di comicità, sorretti dalla mimica di Siravo. Di contorno ma solo sul copione i personaggi del messaggero, interpretato da Mariano Rigillo che non delude mai e dalla intensa Anna Teresa Rossini nel ruolo della sacerdotessa Teonoe: la loro presenza s’impone e riempie il palcoscenico.
Anzelmo affida l’originalità del proprio lavoro al coro: tre i personaggi del coro interpretati da Chiara Barbagallo, Anna Lisa Amodio e Gaspare Di Stefano (gli ultimi due anche nel doppio ruolo di servi). La scelta registica di riservare al coro le parti cantate risulta felice non solo per la bravura degli attori ma anche per portare l’ordine nel disordine. La spinta centrifuga dell’opera trova nella musica la sua ragion d’essere ossia l’innesto da commedia, strizzando l’occhio all’operetta. Una diminutio che surclassa l’accademia e si concede al teatro, che ha il dovere di sbaragliare le carte. Le stesse musiche originali di Giovanni Zappalorto ammiccano ad atmosfere medievali e cortigiane e le coreografie di Barbara Cacciato smarginano sulla piroetta da dervisci.
“Elena” è uno spettacolo complesso che piace al pubblico e piace a chi lo ha scritto e interpretato. La felicità di stare in scena è parte del caos artistico? Dopo aver visto questo spettacolo, si può dire di sì.