Son passati decenni, eppur nella politica estera statunitense rimane il principio iconico, moralistico, antimachiavellico, non solo propagandistico, dell’ ‘Arsenale della Democrazia’, il Lend-Lease Act di Franklin D. Roosevelt dell’11 marzo 1941, mesi prima dell’ingresso formale nel grande conflitto. Lo sappiamo che la politica estera non sarà determinante per il voto del prossimo novembre.
Eppure, se ne tratterà in campagna elettorale e, si legge, è uno degli argomenti che più teme la vispa Kamala nei dibattiti televisivi. In effetti, la politica estera statunitense pare influenzare poco le opzioni di quell’elettore medio. Le ragioni? Facciamo un rapido passo indietro, prima di tornare a Trump-Harris, al ‘disimpegno’ (First America) del primo o alla ‘leadership’ invocata dalla seconda.
Lo storico Samuel Flagg Bemis fu il massimo esperto di storia diplomatica nordamericana. The Diplomacy of the American Revolution (1935) è ancora uno studio di riferimento. Enfatizzava il pericolo del coinvolgimento americano nelle dispute europee. La diplomazia europea nel XVIII secolo era ‘marcia, corrotta e perfida’ per l’autore. Il successo diplomatico americano derivava dallo stare alla larga da quella politica e raccogliere i vantaggi dai conflitti europei. Franklin, Jay ed Adams avevano fatto proprio questo durante la Rivoluzione. Tale ‘isolazionismo virtuoso’ e sdegnoso, al momento delle nuove dichiarazioni di indipendenza delle Colonie spagnole nell’America Latina condusse Washington alla famosa Dottrina Monroe nel 1823. Politica improntata sull’opposizione all’intervento europeo nelle Americhe, che lasciò un segno indelebile nelle mentalità dei successivi leader, di politici, storici ed analisti. Nel 1846, allorchè i Democratici favorevoli all’espansionismo prevalsero sui Whigs (1833-’56), gli Stati Uniti annessero la Repubblica del Texas. Il Messico non riconobbe l’indipendenza texana ed il conflitto durò fino al 1848: al Trattato di Guadalupe Hidalgo, col quale Washington incorporò l’Alta California, il Nuovo Mexico ed il Texas. Oggi California, Nuovo Mexico, Arizona, Nevada, Utah, Colorado e parte del Wyoming.
Con la vittoria Nordista nella Guerra di Secessione (1865), la fine dell’Impero di Massimiliano d’Asburgo in Messico (Inghilterra, Francia, Spagna non avevano mai preso sul serio la Dottrina Monroe), poi la grande immigrazione europea, favorita dai nuovi rapidi piroscafi a vapore, l’espansione nel Far West, le Indian Wars, Washington assume i caratteri e le attitudini di una grande potenza, interventista ed imperialista. Negli anni ’90 quell’opinione pubblica denunciava la repressione spagnola del movimento per l’indipendenza cubana come inaccettabile. Gli Stati Uniti aumentarono la pressione, ‘crearono’ quindi un casus belli (l’affondamento dell’USS Maine nella baia dall’Avana); nel febbraio 1898 mossero guerra alla Spagna, vincendola facilmente. Col successivo Trattato di Parigi essi subentrarono a Madrid nel possesso di Cuba, Porto Rico, Filippine e Guam.
Ciò segnò la transizione dell’America da potenza regionale a potenza mondiale. L’ingresso di Theodore Roosevelt alla Casa Bianca, nel 1901, in seguito all’assassinio per mano anarchica di William McKinley, diede un nuovo impulso al dinamismo statunitense in Estremo Oriente. L’Impero Cinese offriva il vantaggio di trovarsi in condizioni politiche ed economiche tali da fare pensare che sarebbe restato in condizioni di vassallaggio senza riuscire a diventare, in un futuro prossimo, un temibile concorrente industriale. La realtà fu poi ben differente e fu uno dei due ‘granchi’ indotti dalla Wille zur Macht dei 2 Roosevelt, da un pregiudizio geopolitico superbo, ma miope; l’altro sarà quello di appoggiare l’URSS contro la Germania, un Paese enorme e ricco di ogni risorsa contro uno con un gran esercito, scarsa flotta (tranne U-Boot): ottimo per blitzkriegs, ma inadatto a contese prolungate.
Dalla fine del XIX secolo gli USA rafforzarono l’influenza economica e politica nella regione caraibica, anche attraverso interventi militari, per trasformare il Mar dei Caraibi in un mare nostrum data la sua importanza strategica. Praticando la ‘diplomazia del dollaro’ (attuata specialmente dal Presidente repubblicano Taft) realizzarono interventi che portarono all’istituzione di controlli sulle finanze di vari Stati (Honduras, Nicaragua, Santo Domingo, Haiti): il cosiddetto ‘imperialismo indiretto’, non territoriale. Una ‘versione buona’, in epoche più vicine, sarà il Piano Marshall (1947),
parto degli accordi di Bretton Woods e dello strapotere degli USA vincitori. Il Corollario Roosevelt
del 1904 alla Dottrina Monroe – che proclamava il diritto per gli USA d’intervenire per stabilizzare piccoli Paesi inaffidabili, inadempienti, nelle Americhe – definì ulteriormente l’egemonia regionale statunitense. Il repubblicano Theodore Roosevelt, nel 1900, aveva coniato l’espressione ‘grosso bastone’ per sintetizzare il futuro atteggiamento nordamericano (più aggressivo di quello del Kaiser tedesco): ‘speak softly and carry a big stick, you will go far’. Il parallelo Manifest Destiny indica la convinzione che Washington avesse la missione di espandersi, diffondendo la sua forma di libertà e la democrazia, anche con le armi. I suoi sostenitori credevano che l’avanzata non fosse solo buona, ma ovvia (manifesta) ed inevitabile (destino). Una sorta di millenaristico adempimento di superiori doveri, in senso biblico o massonico. Nel XIX secolo l’espressione ‘destino manifesto’ divenne sinonimo dell’espansione USA nel Nord America (la frontiera ‘quasi infinita’) e verso il Pacifico.
Il democratico Woodrow Wilson continuò l’interventismo nelle Americhe, ridefinendo sia il ‘destino manifesto’, sia la missione dell’America su di un più ampio scenario mondiale. Wilson guidò infatti gli Stati Uniti nella WWI argomentando che ‘Il mondo deve essere reso sicuro per la democrazia’: un classico dem. Nell’aprile del 1917 Washington dichiarò guerra agli Imperi Centrali e le truppe americane in Francia (dieci mila unità al giorno) furono determinanti per la sconfitta tedesca del 1918. Manifesto diplomatico-ideologico di Wilson (impasto di Realpolitik e di futuribile etica internazionale, con una buona dose di ipocrisia, visti i seguiti) furono i Quattordici Punti (gennaio 1918), che avevano come presupposto di base la ‘autodeterminazione dei popoli’. Nel suo messaggio al Congresso, nel 1920, il Presidente dichiarò: ‘Questo è il momento fra tutti allorchè la democrazia deve dimostrare la sua purezza ed il suo potere spirituale di prevalere. È sicuramente Destino Manifesto degli Stati Uniti guidare il tentativo di far prevalere questo spirito’, sottolineando con forza che essi avevano una missione come leader universale per la causa della democrazia.
La visione propagandistica degli USA guida del ‘mondo libero’ si sarebbe rafforzata con la WWII e dura tuttora.
Grande articolo. Mi permetto però una considerazione. L’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa dovrebbe essere compresa alla luce della loro genesi. Sia i padri fondatori, sia coloro che sarebbero venuti dopo, avevano lasciato il vecchio continente in quanto perseguitati religiosi o comunque vittime della miseria e della povertà. Il nuovo continente era per loro la terra promessa e l’Europa, se non “l’impero del male”, appariva loro un mondo corrotto, di cui impedire le ingerenze in America, ma nelle cui vicende non immischiarsi per non farsi contaminare.
Da tale sentimento, però, nel corso del Novecento sono emersi due atteggiamenti. Il primo, isolazionista, di cui si sono resi interpreti i repubblicani: America first. L’altro, moralistico e interventistico, prevalente fra i democratici: l’Europa corrotta andava aiutata a redimersi. Non a caso, fin quasi agli anni Duemila, i grandi interventi dell’America sulla scena mondiale (prima e seconda guerra mondiale, Vietnam) sono dovuti a presidenti democratici, da Wilson a Kennedy. Le cose sono cambiate con i due Bush, solo che, mentre la prima guerra del Golfo fu un atto dovuto, la seconda si rivelò presto un errore clamoroso.
Con Obama l’interventismo moralista democratico ha conosciuto un’ulteriore stagione, dai risultati destabilizzanti sia in Africa settentrionale, sia in Ucraina. E ne stiamo pagando e temo ne pagheremo a lungo le conseguenze.
Vero, Enrico, grazie. Pagheremo sì, perchè i dem odiano l’Europa non meno della Russia. E perchè l’apparato industrial-militare che li sorregge non vuole arrivare ad alcuna pace…Come Netanyahu…Forse aveva ragione Papa Pacelli, contro De Gasperi, a consigliare l’Italia di non entrare nella NATO. Una conquista sovietica era assai improbabile (più facile una vittoria elettorale del PCI) in quanto Stalin non era un espansionista, ma un ossessionato dalla sicurezza (Patto di Varsavia), mentre il moralismo peloso dei dem e del loro stramaledetto ‘Arsenale della Democrazia’ può far danni irrimediabili….
Appunto, la propaganda è la “guida del mondo libero”, la realtà è la guida del mondo da parte del popolo eletto dal destino manifesto.