Un padre e una figlia. Pinocchio. E il mondo legato al cinema. Uno sfondo sempre presente che regola una quotidianità intitolata vita. Francesca Comencini fa un’incursione nel suo passato familiare e non risparmia la critica di papà Luigi (Fabrizio Gifuni) ai suoi esordi. “Non ho mai voluto fare un film autobiografico perché le storie personali vanno custodite. Rispetto la tua scelta. Il coraggio di parlare di temi difficili. Non ti arrabbiare però se non verrò a vederlo”. Ombre di tossicodipendenza e di contestazione che porta allo squallido applauso dei liceali radical chic alle Br subito dopo aver rapito Moro.
Il tempo che ci vuole, fuori concorso alla Mostra di Venezia e in sala dal 26 settembre, è un affresco di cuore e di pancia, farcito da citazioni che vanno dal burattino di Collodi al volo di Miracolo a Milano per simboleggiare la morte del regista di Pane amore e fantasia che si descrive come un uomo umile, incapace di realizzare i film che avrebbe sempre voluto. Un giudizio forse eccessivo che dipinge però un uomo attento alla figlia. Legato. Devoto. Severo quel tanto che basta. “Mi hai raccontato bugie, tu ti droghi – dice alla figlia, interpretata da Francesca Maggiora Romano -. D’ora in poi ti seguirò ovunque”. E alle prime insofferenze rincara. “Se ti allontani, non mi vedrai mai più”.
Come nelle fiabe a lieto fine, tutto si aggiusta. Resta un film bello ma forse troppo melenso, dolceamaro – e va bene – ma eccessivamente zuccherino a tratti. Comencini padre picchia forse un po’ troppo se stesso ma il valore maggiore sta forse negli inserti delle pellicole, perdute e dimenticate, che il giovane regista setacciò da cineforum e cinema amatoriali del primo Novecento a Milano e non solo, destinati poi a formare il primo nucleo della nascente Cineteca di Milano, fondata proprio da Comencini.