Alle prime elezioni politiche della neonata Repubblica italiana, il 18 aprile 1948, la Democrazia cristiana ottenne un’affermazione notevole mentre, di conseguenza, il Fronte democratico popolare, che raccoglieva i partiti comunista e socialista, subì una pesante quanto inattesa sconfitta. Gli strascichi della seconda guerra mondiale e le mattanze – anche a guerra finita – di fascisti e fasciste diminuivano e si profilava la possibilità di una pacificazione nazionale. Intanto, dal dicembre del 1946, i neofascisti si erano riorganizzati nel Movimento Sociale Italiano. Il potere, fino ad allora, era stato gestito dai Comitati nazionali di liberazione, realtà politiche locali di governo che riunivano i partiti che avevano combattuto il fascismo e che collaboravano con gli angloamericani.
Un unico collante teneva insieme queste realtà politiche differenti: l’antifascismo. La propaganda era martellante e tendeva ad accreditare al fascismo ogni male e ogni responsabilità. Il confronto nella “guerra civile” era stato molto violento e alla fine del secondo conflitto mondiale ci furono strascichi di attentati, assassinii, agguati contro gli sconfitti fascisti, soprattutto in Emilia Romagna. La vittoria della DC, inoltre, segnò chiaramente la messa in disparte delle sinistre che rilanciarono l’antifascismo perché potesse essere il richiamo all’unità per le “forze dell’arco costituzionale”. Ma gli accordi di pace del 1947 stabilirono che l’Italia rientrava nella sfera di influenza degli USA. Qualche anno dopo, nelle elezioni del 1951-1952, il MSI ottenne un’inattesa affermazione e varie amministrazioni locali formarono le maggioranze grazie all’appoggio esterno o addirittura la partecipazione del MSI. La guerra fredda allontanava la DC dal PCI e i comunisti arrivarono al luglio del 1960, con il governo Tambroni, a proibire con moti di piazza, il congresso nazionale del Movimento sociale italiano che si sarebbe dovuto tenere a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Lo slogan che doveva coagulare la lotta contro il MSI era proprio l’antifascismo, nonostante il fascismo non esistesse più. Dinamica tuttora vigente: l’antifascismo, che non è neanche citato nella Costituzione, viene attualizzato come bandiera per contrastare i pericoli che deriverebbero da un ritorno del fascismo. Intanto, leggi contro i fascisti erano state varate, per tutte la legge Scelba.
Lo storico Pietro Cappellari illustra, nel suo ultimo libro, L’invenzione dell’antifascismo, tutte queste situazioni. Un libro interessante non solo perché ripercorre la storia di quel periodo e le dinamiche della destra e dei partiti antifascisti ma spiega anche le leggi, i diktat imposti dagli Alleati al CLN e i brani della Costituzione imposti dagli Usa. Un testo che spiega le motivazioni per le quali l’antifascismo non doveva (e non deve) essere abbandonato e, quindi, perché la sinistra oggi invoca ancora la necessità dell’antifascismo – a distanza di ottanta anni dalla fine del fascismo.
Pietro Cappellari, L’invenzione dell’antifascismo, Passaggio al Bosco ed., pagg. 220, euro 15,00
Il PCI (oggi PD) nascono e crescono su menzogna e violenza, coerentemente con l’eredità marx-leninista. Lasciamo perdere i miserabili cattolici che, per non affondare, si sono aggrappati a quella ciambella, vivendo poi di contorsioni avvilenti. Ma non è solo una degenerazione italiana la risibile e falsa categoria ‘antifascismo’ , attualizzata all’oggi. Vige in gran parte del mondo, soprattutto in America Latina, dal Venezuela di Maduro all’Argentina del peronismo K ecc.