A due anni dall’uscita del primo volume della sua trilogia maiorchina, “Ricordo di un’isola”, definito da Vargas Llosa “uno dei libri più belli del XX secolo”, esce per i tipi di Fazi Editore “I soldati piangono di notte” di Ana Marìa Matute. E se una parte della produzione letteraria di Matute, risentendo della sua infanzia di bambina solitaria, sognatrice e balbuziente, si è espressa nel genere del romanzo fantastico, spesso ambientato nel Medioevo (si pensi a “Dimenticato Re Gudù”, colpevolmente fuori catalogo da una ventina d’anni) la trilogia in questione, destinata a concludersi con “La Trappola”, è invece decisamente ancorata alla realtà, benché certamente non scevra di quella dimensione onirica che informa tutte le opere dell’Autrice.
E la realtà storica a cui è ancorata l’isola del ricordo della Matute, fotografata alla metà degli anni ’30 anche se la redazione dei romanzi risale alla fine degli anni ’50, è quella della Guerra di Spagna. C’è però una differenza radicale tra “I soldati” e il pur notevole “Nada” di Carmen Laforet: se in quest’ultimo la città è raramente visibile, durante qualche fuga dalla realtà familiare della protagonista, nei romanzi della Matute l’isola di Maiorca è protagonista almeno quanto gli uomini e le donne che la popolano, che hanno con essa un rapporto simile a quello dello “Straniero” di Camus con l’ambiente circostante, la cui atmosfera è al contempo straniante, alienante ma anche familiare e intossicante (“Era bello il mondo, con tutto il suo dolore; perché il dolore era allora incenso che stordiva…”, pensa, tra sé e sé, Manuel).
Uomini e donne, i maiorchini, “dai volti spessi e gli occhi calmi, con una lucentezza di vernice dura, come la corazza di certi insetti”, che, immersi nelle loro occupazioni quotidiane isolane di pesca, di contrabbando, di vita e di giochi infantili, non hanno affatto quell’ammirazione per la guerra che Siegfried Sassoon imputava alle donne nella sua “Glory of Women”, anzi, intuiscono, seppur confusamente, ciò che Quasimodo ha ben espresso nella poesia che dà il titolo al romanzo: “I soldati piangono di notte/ prima di morire, sono forti, cadono/ai piedi di parole imparate/sotto le armi della vita./Numeri amanti, soldati/anonimi scrosci di lacrime.”, e che de Andrè ha tradotto, forse più prosaicamente, nella sua “Guerra di Piero” (“questo ricordo non vi consoli, quando si muore si muore soli…”). Anzi, in Matute come in Laforet l’amore – e soprattutto l’odio – familiare sembra decisamente più potente e totalizzante di quello di classe e politico, eccezion fatta, forse, solo per l’episodio di ritorsione a cui è sottoposta Sa Malene, la madre del protagonista, Manuel, assai evocativo del destino di vergogna che subiscono le donne appena fa capolino l’ipotesi di una guerra, e che potrebbe aver ispirato, agli occhi di chi scrive, la “Malena” di Tornatore.
E c’è un altro romanzo, sempre isolano, sempre mediterraneo, sempre femminile e sempre di formazione e di transizione tra l’infanzia/adolescenza e l’età adulta, che sembra fratello (direbbe Kerouac, “Il mare è mio fratello”) di quelli della Matute, con i loro Matìa e Manuel: è “L’isola di Arturo” della Morante, che vinse lo Strega nel 1957. Anche Arturo, come Manuel, alla fine del romanzo avrebbe infatti potuto dire: “Non sono un bravo ragazzo. Sono un ragazzo sbagliato e ribelle che non rispetta la legge né l’onore, né i lutti, né la gioia, né la logica e decorosa copertura degli irreprensibili abitanti di quest’isola. Non sono un bravo ragazzo, non accetto la violenza e la menzogna che coprono pietosamente le colpe, la vergogna e il malessere della terra. Non sono un bravo ragazzo, sono un indecente adepto della verità, un immorale vivisettore”. E, come a tutti gli adepti della verità, come al “Benoît Misère” di Leo Ferré, la vita gli riserverà scoperte spiacevoli, incontri illuminanti e una brutta fine, ma in buona compagnia.