Ogni azione politica di successo è il risultato del lento sedimentarsi, in un gruppo umano determinato, di ideali e valori con i quali rapportarsi alla vita, al fine di farli divenire “mondo”, vivificando il tessuto sociale nel quale ci si trova ad operare. Che lo stato attuale delle cose presenti la necessità di una ricomposizione comunitaria, lo sostengono da tempo studiosi delle più diverse formazioni. Naturalmente, veri rilevatori sismografici di tale bisogno, sono quegli intellettuali che si pongono oltre i confini del politicamente corretto. Alcuni tra essi hanno compreso l’indispensabilità dell’approccio metapolitico, in quanto l’obiettivo prioritario è da individuarsi nella gramsciana conquista della società civile. In questa operazione di ribaltamento di giudizi ideologicamente stantii e opportunistici, propri della cultura di sistema, si distingue il volume di Marco Cimmino, La scuola capovolta. Controstoria della letteratura italiana, nelle librerie per Oaks editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 634, euro 28,00). Tranquilli, non si tratta di un manuale di letteratura, noioso e prolisso come quelli che abbiamo incontrato sui banchi scolastici, dalle pagine paludate, la cui lettura anziché avvicinarci agli autori presentati, ce ne allontanava.
Al contrario. L’autore, la cui prosa è coinvolgente ed affabulatoria, riesce a far vivere i protagonisti della storia letteraria patria, da Foscolo ai giorni nostri, in modo nitido e chiarificatore. Suo intento primario è svelare il canone critico grazie al quale alcuni letterati nostrani sono stati affrettatamente beatificati, mentre altri sono stati aprioristicamente esclusi, discriminati o, peggio, condannati alla damnatio memoriae.
L’incipit del volume, dedicato al Foscolo, chiarisce come Cimmino, nella sua esegesi si serva, quale criterio discriminante, della coerenza tra il dire e il fare. In questo senso il poeta è antesignano del (mal)costume nazionale. In lui, ricorda l’autore: «non possiamo fare a meno di sottolineare come ai grandi e nobili propositi e sentimenti espressi con voce altisonante in ogni sua opera non fecero mai seguito atti degni di tali proponimenti». Ben diverso il caso di Leopardi, la cui opera è stata, il più delle volte, presentata dalla critica e dal canone interpretativo ufficiale, quale esito della condizione di patimento fisico, e/o letta quale risultato di problematiche psichiche analizzate in chiave psicanalitica. In realtà, il grande recanatese, è latore di un messaggio di dignità umana e civile, in un’epoca nella quale la lamentazione romantica la faceva da padrona. Il realismo tragico delle pagine dello Zibaldone è alta testimonianza di dignitas spirituale: «chi affronta la realtà e l’osserva senza timore, difficilmente potrà evitare di esprimere scetticismo sull’umana stupidità o, se si preferisce, sulle debolezze dell’uomo». É, infatti, lungo la medesima linea interpretativa di Cimmino che, negli ultimi decenni, si è mossa la critica leopardiana più accorta, leggendo il poeta con strumentazione teoretica. Si pensi alle analisi puntuali di Cesare Galimberti, Severino, Givone e soprattutto Donà. Pertanto, rispetto al recanatese, sta cedendo l’asserto critico-canonico, di intellettuale schierato dalla parte delle sorti progressive dell’umanità.
Un caso emblematico, a parere dello studioso, è rappresentato da Italo Svevo, il quale all’inizio della carriera letteraria non era stato baciato dal successo, che gli arrise grazie alla “conventicola” di amici italiani e francesi che iniziarono a scrivere di lui su riviste prestigiose. Cimmino ricorda la debolezza della scrittura sveviana, sotto il profilo lessicale e morfo-sintattico, ma riconosce al triestino di aver espresso: «i caratteri negativi dell’uomo moderno […] Svevo scelse di raccontare l’apparente normalità del banale quotidiano che, a conti fatti, si rivela più angosciante della semplice follia». Dopo Svevo, le sorti di molti letterati del nostro paese saranno segnate dai giudizi, a seconda dei casi negativi o positivi, della conventicola (ben retribuita) di critici che, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, sarà schierata in toto nella difesa del politicamente corretto. Innanzitutto, nella difesa di ciò che Renzo De Felice definì la “vulgata resistenziale”. Tale atteggiamento esegetico produsse l’esaltazione acritica di romanzi d’appendice, che toccarono i vertici delle classifiche di vendita e dai quali furono tratti molti “capolavori” del neorealismo cinematografico: «solo perché ambientati tra partigiani o resistenti». Ciò produsse uno dei peggiori fenomeni culturali del dopoguerra: la disumanizzazione dell’avversario, del fascista, incarnazione del male assoluto. Al contrario, la letteratura direttamente legata: «alla resistenza ebbe più pudore […] attenuò con la valenza estetica […] certe forzature inaccettabili». E’ il caso di Beppe Fenoglio che nella descrizione della guerra civile, si attenne alla dimensione oggettiva e non fece mai banale apologia resistenziale.
La letteratura sessantottesca fu: «deiezione amorfa e iconoclasta di una generazione annoiata e borghesuccia che […] decise di cimentarsi in una rivoluzione da operetta, senza rischi e senza sussulti». In linea, del resto, con l’esisto storico ed ormai acclarato della contestazione: non certo liberazione dal Capitale, ma liberazione definitiva del Capitale dagli ultimi vincoli sociali che ne frenavano l’espansione mondialista e omologante. Nella produzione poetica di tali autori, venne meno la tenue ispirazione delle neoavanguardie, la loro fu una poesia del tutto superflua. Purtroppo i tedofori dello sperimentalismo nato allora, sono i maestri dell’Italia contemporanea che, grazie all’autocitazione pretenziosa, sono divenuti: «i modelli culturali della correttezza politica e dell’egemonia del pensiero unico». La loro azione ha occultato volutamente la produzione creativa di “eretici” quali Papini, Prezzolini, Bontempelli, Malaparte, solo per fare qualche nome. Il secolo breve, nato in tragedia, è così finito in farsa.
Solo la riscoperta della dimensione estetica quale discrimine tra ciò che è arte e ciò che non lo è, può oggi, conclude Cimmino, ridare speranza. La cosa è stata compresa da Giuseppe Conte, poeta contemporaneo, che ha scritto: «Interrogo te, padre, a te chiedo/ la forza per lottare e per credere che il deserto si deve traversare/ che della sabbia si può fare mare/ e alzare vele e scegliersi una rotta/ per andare dove non importa». Con i Padri verso un futuro altro rispetto al presente desertificato.