“Il marciapiede cedeva, consumato d’attesa e passi indimenticabili.
Io, unico ospite, dalla paura mi precipitai in un’osteria
– ed esplose l’indifferenza, non ne uscii più”.
(Piero Ciampi)
Scrivere un romanzo consiste nel portare alle estreme conseguenze, attraverso la descrizione, l’incommensurabile dell’umano “esserci”. Queste parole di Walter Benjamin si adattano abbastanza bene a Donato Novellini, autore di Hortus conclusus, romanzo edito da Agenzia NCF nel 2024 e abbellito dalle suggestive illustrazioni di Dario Moretti. “Abbastanza” perché Hortus conclusus non è soltanto un romanzo che accedendo al “regno sotterraneo della immagine” scandaglia con sopraffina sensibilità gli intricati labirinti della condizione umana, ma un dinamitardo attacco al mondo moderno, alle sue parole d’ordine, alla sua struttura retorica, alla sua mancanza di stile, ai suoi cliché.
Novellini non cambia ambientazione rispetto alla precedente raccolta di racconti BAR né modifica il postulato del suo libro d’esordio, pubblicato nel 2018 da Giometti & Antonello: “si scrive per bere, non il contrario”. Tuttavia se nella raccolta il protagonista bighellonava da un bar all’altro stilizzandone metafisico sostrato e conseguenti individuazioni umane, in Hortus conclusus il quasi cinquantenne Guglielmo prende le mosse dal “barretto rétro d’amena frazione” Due Platani, provinciale giardino dello spirito germogliato nelle ataviche campagne mantovane dove la luce preserale dora ogni cosa “dilatando il tempo”, “facendone Kairos”. Il Due Platani sembra fagocitare e scegliere i clienti o, alla bisogna, sputarli via – la sua potenza attrattiva e repulsiva ne fa un organismo volto all’autoconservazione, a tal punto che l’ambiente è assai più importante delle persone. Non perché le persone non contino, ma perché, quasi alla maniera di Heidegger, il bosco non si riduce alla mera somma degli alberi né il mare all’insieme dei pesci e delle altre creature che lo popolano: c’è qualcosa di più, una forma che trascende gli elementi che la compongono e, financo nell’ambiente del bar, e non solo in quello, vale lo stesso. Il “limaccioso microcosmo” del bar è difatti radura latrice di apparizioni, sottosuolo trascendentale da dove scrutare – preziosa tecnica dell’attesa – i personaggi al riparo da infezioni e “untuose attiguità”.
D’altra parte l’osteria, a dispetto delle “stralunate comparse femminili” e delle cameriere (“trottole ballerine farfalle api”), è “un posto per maschi. Rudi e spesso volgari, ovvero sinceri”. Eppoi, come si diceva, c’è l’anarca Guglielmo che, intriso di letteratura francese, fiammiferi e sigarette, dal suo remoto tavolino – “eremo fortificato a difesa di solitaria meditazione” – con sottile arte mimetica volta all’auto-emarginazione e “scevro da manie di protagonismo”, scansiona gli umani all’ombra dei tigli sorseggiando rigorosamente Campari immerso in una “ebbrezza trasognata” e leggendo, tra il canto delle cicale, in uno stato di “ebete vaneggiamento”, Un uomo senza qualità. E non è certo un caso che il sottotitolo del libro sia “una vita senza qualità” giacché da un lato è il romanzo di Musil ad ospitare Guglielmo nelle sue atmosfere, dall’altro è Guglielmo a ospitare il libro – così da concretarne, in vari frangenti, nella sua esistenza da paradossale flâneur di provincia finito in un cul-de-sac, grigie prospettive e austroungarica essenza.
Questa sorta di Ulrich-Guglielmo che fa del bar “una scuola di vita, la meta ideale del perdigiorno” e che nella sua eccezionalità inutile drammatizza la nichilistica inettitudine dei disincantati incompresi, ci catapulta nella sua poesia dell’antipoesia, nel suo romanticismo postromantico, dandismo in assenza di città, nella sua retorica dell’antiretorica lasciandoci senza parole (bastano e avanzano le sue) – vale a dire, pure, senza tempo. Non infatti il furente rimescolio tipico di un’ideologia che blatera compulsivamente di Libertà sventrandone il senso, ma il “per sempre” ci sembra lo scandolo di questo libro, ideale inattuale e irraggiungibile, odissea mentale, poesia che nutre ogni icarico desiderio; l’impossibile definitivo che viola la volgarità dell’età oscura e che sta nei “nonni sepolti uno accanto all’altra, crisantemi per sempre al cimitero”.
Guglielmo, incurante dei “parametri mercantili della convivenza spicciola”, non è dunque un pavido agente di una troppo comoda a-modernità che si soddisfa con qualche turistica fuga nella cosiddetta natura, ma è integralmente antimoderno dato che nel rifiuto del successo e della sua inconsistente messa in scena si cela l’anelito alla intensità senza tempo oppure a un tempo irreversibile che, secondo la lezione di Bergson, dura stimolando di continuo l’intuizione estetica e la rammemorazione immaginifica; nella ricerca del dettaglio e dell’anima delle cose, inoltre, quantunque tutto sia “in balia dell’urgenza e della vitalità irrazionale”, echeggia ancora nella sua stabile e misteriosa trascendenza l’atmosfera del luogo, mentre dalla descrizione spesso crudele e umoristica (più che ironica) dei vari personaggi affiora l’amore autentico di chi odia utopiche emancipazioni, erudizioni da opuscolo, “idealismo vacanziero degli anticapitalisti coi soldi dei genitori”, “eterno Erasmus di chi abusa di gangia millantando poliglottismo”, “opinionisti blateranti sui social”, “scrittori dei diritti e delle diseguaglianze”, l’”astratto concetto di mondo”, i “globalisti”, il “becero pragmatismo economico”, narcisistiche esposizioni artistiche, chiacchiere sul caldo, mode del momento, vie di fuga nella universalità, nella commemorazione sistemica, nella astrazione statalizzata – insomma, il “passatista” Guglielmo, ostile a qualsiasi contingenza politica e refrattario a “qualsiasi ipotesi di tornaconto”, si sente postumo, sconfessa l’attualismo ed esecra “il progresso con tutte le sue fanfare”, al quale preferisce la scomparsa, un anonimato salvifico che, spengendo l’accecante lume dell’apparenza, giustizi senza appello pure il feticcio della cultura e riattivi dottamente, tragicamente l’ignoranza – stupore trauma dramma.
Del resto Guglielmo è metafisicamente incuriosito, come Baudelaire e Benjamin, dal transeunte e, jüngerianamente, dai relitti preziosi, residui del già stato, presagi che il tempo abbandona sulla battigia dell’eternità. Ecco che le cose – soprattutto quelle spuntate per caso, soprattutto i doni – hanno una loro anti-illuministica aura assomigliando a “passepartout, o meglio ad atti testamentari” che custodiscono “sottotraccia una forma di preveggenza occulta” annunziando “esiti previsti o mete future, approdi aperture partenze distanze dimenticanze, indipendenze”; in breve, certe cose, come certi luoghi, parlano, anzi ricambiano il nostro sguardo, la nostra cura. Lo scrittore è difatti abile a citare senza citare, ad alludere, a risvegliare “soluzioni immaginarie” e corrispondenze nella patafisica certezza che non vi sia solo un lato delle cose e che ogni faccia – coincidentia oppositorum – chiami l’altra. La cosa può essere d’altronde “mise en abyme”, “messa in abisso di una memoria ricorsiva a perdere”, “atmosferica posterità”, “nostalgia dilatata, deforme museale”, matrioska che, lasciando di stucco il “tardivo assemblatore di cocci”, replica a spirale l’uguale sino all’intraducibilità.
C’è poi lo stile – uno stile senza eguali, nominale, scorrevole, poetico, con a tratti inflessioni quasi futuriste, tripudio di allitterazioni, onomatopee, similitudini, anafore, climax e anticlimax, iperboli, metonimie, sinestesie. E senza eguali è anche l’utilizzo di avverbi e congiunzioni desuete conferenti al testo elitaria eleganza e gradevole, coinvolgente musicalità, sostegno del pensiero danzante che celatamente sorregge il succedersi dei pochi eventi narrati e i vagheggiamenti intimi del protagonista, vera trama del romanzo. Tra queste: epperò, financo, eppoi, dipoi, vieppiù, colà, dacché – per citarne solo alcune. La ricercatezza si fonde naturalmente con la simpatica antipatia dell’autore che rende la lettura estremamente scorrevole anche grazie all’uso di parole gergali. Già, perché in questo fluente narrare dagli argini d’oro, i nomi, anche quelli all’apparenza meno nobili, sono vie d’accesso, vestiboli poetici: “a sinistra il fiume, screziato rosso fluiva tra le sabbie delle anse”. Ritorna, seppur forse a tratti meno esotericamente connotato, il “realismo magico d’avvinazzati” che aveva contribuito a fare del libro di esordio di Novellini appunto un’opera magica, per pochi. Non si tratta peraltro soltanto di stile, ma di non temere i contenuti – a tal punto che, anzi, è come se – in un costante pathos della distanza ben distinto dallo schifiltoso e mediocre snobismo da salotto oggi orrendamente in voga – fossero accolte soltanto idee che definire controcorrente sarebbe eufemistico. Novellini, ad esempio, non solo rigetta il “relativismo esasperato dell’epoca” che rende tutto interscambiabile, ma, descrivendo Guglielmo, propone una sorta di misantropia declinante in misoginia che certo acuisce le incomprensioni tra gli amanti contribuendo a fare dello s-radicato protagonista e della “nomade” Irene la metafora della tragica incomunicabilità moderna; tale modo di esperire e di concepire i rapporti sociali e, appunto, sentimentali, si incastra precisamente nella complessiva weltanschauung del protagonista e nella sua dis-incantata concezione erotica. D’altro canto il libro è anche, se non principalmente, alla stregua di I sette colori di Brasillach e in parte dei romanzi di Drieu La Rochelle, un delicato romanzo d’amore; sebbene, proprio come nel romanzo dello scrittore di Sei ore da perdere, l’amata non sia adorata nella sua universale – vale dire astratta – “donnità”, ma desiderata per le sue irripetibili peculiarità nonché, in virtù di una innata attitudine all’autosabotaggio, ripudiata, lasciata andare, spinta quasi via, non trattenuta, inconsciamente esiliata per poi essere forse riesumata in un’altra donna, quasi esorcizzata in un’altra ancora e infine rimpianta – ma fatalmente, irrimediabilmente; grazie anche a una certa affinità elettiva, la giovane Irene – e in parte gli altri personaggi femminili – è altresì circostanza artistica, letteratura, parola che suscita parola, varco oscuro che chiama apollinee chiavi esegetiche, elevazione vertigine scacco. Nell’amore e nel collegato viscerale rifiuto del mondo moderno e dei suoi sirenici canti Novellini sublima l’esperienza vitale senza far ricorso alla consueta “petalosa” narrazione che sovente accompagna oggi la descrizione del sentimento amoroso, anzi aborrendola. Anche l’amicizia, d’altronde, è esperita in modo singolare, non deve essere assidua, ma, seppur nel rispetto delle frequentazioni sedimentate, quasi frammentaria, rivissuta ogni volta estemporaneamente per non affondare nell’uggia, nel dover essere, nel doversi aspettare qualcosa.
Il viaggio del protagonista – ermeneutica della interiorità spazialmente determinata – si svolge tra due luoghi: l’osteria Due Platani – fittizia proustiana Combray mescolante “memorie alterate” – e Hortus conclusus, improvviso, genuino, scioccante ritaglio, vivaio di memorie non proprie. Quantunque l’osteria evochi in fondo i ricordi trasfigurati del protagonista mentre l’hortus in qualche modo il loro oltrepassamento e con questo l’agognato allontanamento dal mondo, i due metaluoghi non sembrano del tutto antitetici, essendo forse l’hortus, miniaturizzato, infinitesimale, lucido specchio del bar Due Platani, sua autentica essenza, monade. Tra un luogo e l’altro, tra un amore e l’altro, dentro Guglielmo e fuori, aleggia come in un incantesimo lo spirito polimorfo di Novellini: colti riferimenti artistici, musicali, letterari e filosofici, avanguardia e retroguardia, malinconia, a tratti estetismo, vitalismo, pessimismo e poesia, soprattutto poesia.
È forse in rogo l’orizzonte del bar Due Platani intanto che in vermiglio “nichilismo campestre” s’interrompono i sentieri di questo manchevole avvicinamento; s-compaiono ombre e figuranti; permane nella prodigiosa parola di Novellini – quella che fa bere – l’ambiente, più importante, che fa leggere, che fa scrivere.