Pressoché coevo all’etereo “Il suono della montagna” di Yasunari Kawabata – il primo pubblicato a puntate tra il 1949 e il 1954, il secondo invece nel 1956 – e solo ora meritoriamente edito in Italia per i tipi di Adelphi, “Le ballate di Narayama” è stato definito da Yukio Mishima “un capolavoro assoluto”. E se i due romanzi citati hanno in comune il tema chiave della decadenza dell’età e dell’approssimarsi della morte, i rapporti familiari difficili e la presenza di una montagna, incombente e al contempo lontana, essi sono però diversissimi nello stile e nell’approccio: quello di Kawabata raffinato e contemporaneo, quello di Fukazawa Shichirõ crudo e atemporale, vicino all’oralità e al mito – anche greco, se solo si pensa che Tatsuhei, protagonista della seconda parte del racconto, è dilaniato da un conflitto tra amore e responsabilità verso la comunità che non è poi molto distante da quello di Antigone.
Usando l’espediente, quasi manzoniano, dello studio sulle ballate di una remota zona del Giappone della fine del periodo Edo (ma potrebbe tranquillamente trattarsi del Giappone feudale, per le poche indicazioni cronologiche fornite nel corso del racconto), Fukazawa fornisce una sua versione “fiabesca” della leggenda di Obasute o Ubasute, che letteralmente significa “abbandonare una donna anziana”. Certo, chi per “fiabesca” dovesse intendere “confortante e puerile” rimarrebbe alquanto sconcertato nel leggere questo breve ma denso romanzo in cui la protagonista è la fame, una fame feroce, umiliante, che spingeva le comunità della provincia di Nagano ad “esiliare” chi avesse compiuto il settantesimo anno di età in un luogo montuoso deputato, una sorta di cimitero degli elefanti a due zampe, per liberarsi delle bocche improduttive da sfamare. Non vi sono, pare, evidenze storiche dirimenti di questa usanza, ma, d’altro canto, non era stata la fame a spingere i genitori di Pollicino ad abbandonare i figli nel bosco una prima e una seconda volta? E non sono pervase di crudezza anche le fiabe dei fratelli Grimm, o quelle islandesi recentemente ripubblicate da Iperborea?
Quindi il “suono della montagna” di Fukazawa è quello dei corvi, i corvi che gracchiano minacciosi, che sventrano i cadaveri dei predecessori di Orin, la vecchia protagonista del racconto, che, ligia al dovere, intraprende il suo pellegrinaggio, l’ultimo. E qui, nel climax finale che tanto ha impressionato Mishima, l’orrore delle Ballate di Narayama è più simile a quello della graphic novel di Kleist su Nick Cave, “Mercy on me”, o all’eccezionale romanzo d’esordio dello stesso Cave “E l’asina vide l’angelo”, che a quello di un Lafcadio Hearn: l’orrore non è infatti quello dei fantasmi, degli oni, degli yōkai, l’orrore è nella realtà, nell’umano, e non risiede neppure nei piani machiavellici che l’uomo può concepire contro i suoi simili, come avviene in alcuni romanzi di Edogawa Ranpo (si pensi a “La strana storia dell’isola Panorama”), ma nella sua natura più recondita, nuda, vulnerabile e però vitale, palpitante.
Ma torniamo al parere di Yukio Mishima sul romanzo, che, grazie al suo voto, vinse il premio Chūō Kōron: “Non dimenticherò mai la notte in cui, stanco dopo aver letto alcune delle opere candidate al premio, con i piedi infilati sotto la coperta al calore del braciere, cominciai a leggere quel manoscritto dall’aspetto poco attraente. All’inizio leggevo senza molto interesse, trovando la trama noiosa, ma dopo aver letto cinque pagine, poi dieci, iniziai ad avere uno strano presagio. Ho continuato a leggere trattenendo il respiro sino a quel climax tremendo, e quando ho finito sono stato colto da una profonda emozione: sentivo di aver scoperto un capolavoro assoluto. Tuttavia, era un capolavoro sgradevole. Un capolavoro sgradevole in cui si annidava qualcosa che aveva il potere, a lettura ultimata, di farci sentire come se la nostra fondamentale aspirazione alla bellezza e all’ordine fosse derisa, la nostra idea di umanità calpestata, le nostre viscere di colpo esposte all’aria, il sublime e l’infimo deliberatamente mischiati, il senso della tragedia trattato con disprezzo, ragione ed emozione destituite di significato; vi era qualcosa che aveva il potere di farci sentire come se non fosse rimasto più nulla su cui fare affidamento in questo mondo. Il terrore che provo ancora oggi leggendo Fukazawa ha origine nella prima impressione suscitata in me dalle Ballate di Narayama”.
D’altronde, non è forse “un capolavoro sgradevole”, sempre nipponico e novecentesco, anche “Lo squalificato” di Osamu Dazai? Giorgio Amitrano, nell’ottima postfazione (che inciampa solo in un accenno a de Sade un po’ a sproposito), prova a delucidare il lettore riguardo a questa sgradevolezza, scrivendo: “[…] sembrava ricordare al Giappone che le sue radici erano sporche di terra e bagnate di sangue”, cosa che al Giappone del “rimbalzo” post-bellico e del boom economico e sociale degli anni ’50 non andava affatto a genio ricordare.
Forse è per questo che, mentre le opere raffinate e contemporanee di Kawabata, che spesso strizzavano l’occhio, con i loro protagonisti, agli usi e costumi occidentali, gli valsero, nel ’68, il Nobel per la letteratura, poco ci mancò che Fukazawa fosse linciato (e il suo editore e Mishima, divenuto nel frattempo suo amico, con lui) per un racconto concepito probabilmente dallo scrittore stesso come una sorta di critica sociale dadaista e anarcoide, ma considerato dal grande pubblico offensivo nei confronti della famiglia imperiale giapponese. Il pubblico rimase talmente sdegnato che alla porta della casa dell’editore si presentò un diciassettenne armato di coltello che, non trovandolo a casa, si accontentò di accoltellarne la moglie e la domestica – purtroppo, non con la spada di Ninigi-no-Mikoto!
“Le ballate di Narayama” di Fukazawa Shichirō, per Adelphi
Camilla Scarpa