Nelle note del libretto di Horai- Le Quattro Stagioni di Giuliano Peparini il grecista Francesco Morosi confessa una sua debolezza nella scelta dei testi classici da tradurre per lo spettacolo: essersi fatto guidare dal cuore. Come Leandro innamorato di Ero, si è fatto scottare dal fuoco dell’Amore “Scegli il fuoco, mio cuore, non temere l’acqua del mare”. Acqua e fuoco sono i due elementi con cui Peparini ha scommesso per questa nuova edizione -i testi contemporanei sostituiti in gran parte da testi greci e latini- del suo spettacolo, che al Palais du Congres a Parigi ha fatto registrare lo scorso anno sold out per ogni replica.
L’acqua spegne il fuoco, si sa. Ma anche il tempo fa la sua parte. L’amore è un ciclo infuocato: divampa e si spegne, in mezzo c’è la peggior nemica ossia la noia. E’ la legge universale dell’amore che Peparini racconta a modo suo: danzando. O meglio facendo danzare la grazia e la potenza di Eleonora Abbagnato, per la prima volta a Siracusa, accompagnata da Michele Satriano primo ballerino dell’Opera di Roma. Magnifici entrambi.
L’amore è esagerato, anche questo si sa. Esagera nella fame dei corpi, esagera nel possesso, esagera nell’arcobaleno delle emozioni, è carne anche quando, menzognero, si spaccia per sublimazione sentimentale, esagera nel dolore o nella rabbia o nella desolazione, esagera nell’abbraccio con la morte. Esagera come lo spettacolo di Peparini, che regala al pubblico un’opera bulimica, frenetica, illimitata. Come l’amore. Come la morte.
Esagera anche Giuseppe Sartori che, nel sudore del petto nudo, nei suoi movimenti di danza, nei gesti più che ammiccanti, nella forza della voce per le parole antiche, si fa carico di tutta la sensualità intorno cui ruota lo spettacolo. Sensualità palpabile che si appiccica addosso ai ballerini e agli spettatori, increspa la pelle, dà sangue al desiderio. C’è sempre Dioniso a guidare il corteo delle Ore: il tempo è tempo della voluttà e dell’estenuazione. Per questo i Greci contavano tre stagioni perché, D’Annunzio docet, estate e autunno si fondono. Come nelle tre finestre della scenografia da cui affaccia l’interno domestico della storia d’amore.
C’è urgenza nella messinscena: i tableau rincorrono e percorrono il tema. Lo sbranano, lo ricompongono, vi s’incuneano. Vi si stendono sopra e ci fanno l’amore. L’orgasmo è la danza: i passi a due di Lei (Eleonora Abbagnato) e Lui (Michele Satriano) moltiplicati nelle coppie dei venticinque solisti e di Loro (Gabriele Beddoni e Matteo Uboldi), nel gioco di specchi che è una cifra della poetica di Peparini. I ballerini solisti e del coro formato dagli allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico corrono da una parte all’altra della scena, colpiti dall’implacabile Eros. Anche i movimenti coreografici e mimici sono propri del regista, del suo occupare lo spazio in un reticolo di linee verticali, oblique, orizzontali. Quanto parlano gli amanti! Le parole sono il filo da cui partire per fare a sé nodo dell’altro. La parola dell’amore preferisce la misura del verso: franto, sonoro, ondulante. E quindi il verso di Catullo e di Orazio, di Paolo Silenziario dall’Antologia Palatina, di Rilke e di Neruda. Lucrezio fa da catalizzatore all’erotismo “Venere è lì pronta a spargere il seme”. La Venere voluptas che strema gli amanti “dall’intensità del piacere” e poi li logora con “questa ferita segreta”.
C’è esuberanza di musiche. Non solo i quattro concerti per violino di Antonio Vivaldi (nell’esecuzione di Herbert von Karajan) cui l’opera s’ispira e le sonate di Domanico Scarlatti, anche canzoni e musiche iconiche Aprite le finestre di Franca Raimondi (Festival di Sanremo 1956) alla versione strumentale di Summertime a Solitude di Billy Halliday a Le fuelles mortes di Yves Montand o Crazy di Patti Cline e l’immancabile Frank Sinatra con Nancy. Con un appunto: i movimenti di allegro e adagio vivaldiani sarebbero bastati allo spartito emotivo dell’opera. Gli effetti scenografici si avvicendano nelle tre grandi finestre: pioggia, neve, sole, nuvole e alberi dei colori delle stagioni e il cartone The snow withe, un classico Disney del 1933. La poetica dell’opera totale e le molte autocitazioni negli oggetti di scena (divani, ombrelli rotti, appendiabiti, ventilatori) o nello scivolare dei costumi e dei colori coprono con il manto della spettacolarità le stagioni vivaldiane.
L’amore ha di suo che sorprende pur essendo sempre lo stesso. E’ facile riconoscere i simulacra dell’amore (i miraggi nella traduzione non scontata mai di Francesco Morosi) anche quando riappaiono a darci altra smania. Horai- Le Quattro Stagioni si conclude con l’arrivo della primavera, con i saluti curatissimi degli attori e ballerini in scena e con uno scroscio di applausi catulliano “Dammi mille baci, e poi cento/ e poi altri mille, e poi ancora,/ poi senza smettere altri mille e poi cento”
Foto di Franca Centaro e Tommaso Le Pera