Il 25 aprile 2024 Sergio Mattarella, capo dello Stato e garante dell’unità nazionale, ha affermato che “intorno all’antifascismo l’unità del popolo è doverosa” (Corriere della Sera, 26 aprile).
Ora, a parte il fatto che il termine “antifascismo” non compare nemmeno una volta nel testo della nostra Costituzione, si parva licet componere magnis il Signor Presidente della Repubblica e il sottoscritto prosaico giornalista sono pressoché coetanei, abbiamo cioè vissuto esattamente lo stesso periodo storico, eppure io non ricoprendo cariche istituzionali ma essendo un semplice commentatore mi posso permettere di scrivere il contrario di ciò che lui sembra affermare: vale a dire che il 25 aprile non è il giorno dell’unità ma l’anniversario della divisione nazionale. Non è una opinione senile. Ne scrivevo già alcuni decenni fa su Area, il mensile diretto da Marcello de Angelis, contrapponendolo al 2 giugno, proclamazione della Repubblica, ricorrenza nella quale tutti ormai più o meno tiepidamente si riconoscono, con l’eccezione di quanti – ad esempio i monarchici – considerano più significativa la data del 17 marzo, anniversario della proclamazione dell’Italia unita.
Da quasi 80 anni – e nel 2025 sarà anche peggio – viviamo immersi nella più totale ipocrisia, quella dell’esaltazione dell’8 settembre che ci trasmigrò da un’alleanza politico-militare ad un’altra opposta e contraria abbandonando alla vendetta dei traditi i nostri soldati, specie all’estero. Si glorifica insomma l’aver voltato gabbana passando dai “cattivi” ai “buoni” che ci avevano invasi e verosimilmente stavano prevalendo, l’esserci redenti e aver così “vinto la guerra” stando infine dalla “parte giusta” dividendo però gli italiani fra Male Assoluto e Bene Assoluto. Il tutto senza voler mai ammettere che fra il 1943 e il 1945 si sia svolta non una “guerra di liberazione” ma una guerra civile, la peggiore di tutte le guerre, la più efferata, la più crudele, la più violenta perché tra fratelli, fra italiani divisi da ideologie opposte. Italiani che tuttora non riconoscono la buona fede degli avversari sconfitti, i cui atti furono a prescindere tutti negativi, mentre quelli della parte vincente – anche i più atroci – vengono alternativamente negati, minimizzati o comunque sempre giustificati ex post.
Il primo che a sinistra osò utilizzare esplicitamente – seppur glorificandolo – questo termine sempre rifiutato ufficialmente, come se una guerra civile non ci fosse mai stata e fosse una invenzione dei “fascisti” sconfitti, a 45 anni dalla fine del conflitto fu lo storico comunista Claudio Pavone con Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991). Sino a quel momento solo a destra, con la monumentale Storia della guerra civile in Italia (FPE, 1966) in più volumi di Giorgio Pisanò era stata utilizzata una simile definizione. È proprio per questo che celebrando il 25 aprile nei modi in cui si fa ancora adesso, la ricorrenza diventa l’esaltazione di una guerra fratricida, della vittoria di una fazione sull’altra, alla quale non si può chiedere di essere d’accordo per il fatto di essere stata sconfitta con le armi (in sostanza quelle delle Alleati). Lo si potrebbe chiedere soltanto se si ammettesse che anche i partigiani commisero crimini efferati e da molto tempo documentati da inchieste e libri che si vogliono ignorare; crimini perpetrati in larga parte proprio il 25 aprile 1945 e nei giorni o anche mesi successivi, cioè a guerra conclusa, contro i militari e i civili della RSI che si erano arresi o erano stati catturati e quindi inermi, per pura vendetta e odio: soltanto quelli che rimasero ben organizzati, come la Decima Mas e altri reparti, e si consegnarono agli Alleati salvarono la pelle.
Non posso immaginare se il Signor Presidente della Repubblica si sia mai documentato in merito, non dico sui libri di un Pisanò – che, ahinoi, era un “fascista” e quindi a priori inattendibile – o Renzo De Felice ma almeno su quelli di Giampaolo Pansa a cominciare da Il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer, 2003) e che era un antifascista “doc”: un saggio, o meglio una inchiesta giornalistica, di oltre venti anni fa ormai, che fece molto scalpore suscitando aspre polemiche a sinistra, cui ne seguirono sulla stessa scia ben altri cinque sino al 2010, tutti polemici nei confronti di una sinistra smemorata. Il suo intento, come scrisse in quel primo libro Pansa, era di “spalancare una porta rimasta sbarrata per quasi sessant’anni”, porta spalancata da cui è uscito un profluvio di verità squalificanti per “resistenza” e “liberazione”. Ovviamente se le si ricorda e le si ammette, altrimenti il coraggio di Pansa è stato inutile. Grazie al Fato (e all’intuito editoriale) Il sangue dei vinti è appena stato ripubblicato da Rizzoli e non ci sono problemi per nessuno, figuriamoci per il capo dello Stato, a procurarselo. Se per caso lo avesse fatto, il Signor Presidente potrebbe avere una documentazione che forse lo renderebbe consapevole dell’impossibilità di raggiungere una “pacificazione” e quindi quella “unità” nazionale da lui auspicata senza l’ammissione preliminare delle responsabilità di ambo le parti. Ma sa qualcosa il presidente Mattarella delle ausiliarie del SAF uccise con le bombe a mano tra le gambe, del sottufficiale della GNR crocifisso sulla porta di una chiesa, dell’eccidio dell’ospedale di Schio compiuto la notte del 6-7 luglio da ex partigiani garibaldini e da membri della Polizia ausiliaria partigiana, con i feriti “repubblichini” uomini e donne massacrati a colpi di mitragliatrice e scaraventati giù dalle finestre, e non parliamo dei civili “fascisti”, per un totale di 54 morti? E tutto questo, ripetiamo, dopo la fine ufficiale della guerra. E vogliamo ricordare i sacerdoti ammazzati dai partigiani, mentre si ricordano soltanto quelli uccisi dai “nazifascisti”, come se le due morti avessero un senso e un peso diversi? Vada, certo, il presidente Mattarella ricordare il 25 aprile nei paesi messi a ferro e fuoco dai tedeschi senza che però si ricordino mai i motivi che portarono a queste feroci rappresaglie, ma lo stesso giorno vada ad esempio anche a Schio. Sarebbe un gesto fondamentale per ricomporre quella che è stata definita, e non a torto, una “memoria divisa”, ancora dopo 80 anni, almeno tre o quattro generazioni.
Sembra incredibile ma in passato, oltre venti anni fa, quando fu Presidente della Repubblica negli anni 1999- 2006, Carlo Azeglio Ciampi fece alcuni passi in questa direzione(ma lui non era un politico di professione). Ma c’è altro da ricordare, chiedendosi se oggi sarebbe ancora possibile: ad esempio ,Ignazio La Russa che da ministro della Difesa nel 2008-2011 parlò in difesa dei militari della RSI; in precedenza Gabriele Albertini che da sindaco di Milano il 2 novembre 1999 partecipò sia alla commemorazione dei partigiani sia a quella dei militari “repubblichini”; e ancor prima il presidente della Camera Luciano Violante, che il 10 maggio 1996 provocò uno scandalo generale solo per aver chiesto una riflessione sulle ragioni che, dopo l’8 settembre, indussero molti giovani a scegliere la Repubblica Sociale (ragazzi, ma soprattutto ragazze).
La risposta è semplice e sta in quel motto “Per l’Onore” adottato da molti reparti RSI. In una trasmissione radiofonica di parecchi decenni fa, che oggi probabilmente nessuno oserebbe replicare, i reduci della RSI dissero che sarebbero andati a Nord anche se al posto di Mussolini ci fosse stata Wanda Osiris.. e tra questi reduci c’erano anche personalità importanti come il professor Pio Filippani-Ronconi illustre orientalista. L’“onore” di una nazione perduto con il tradimento di un’alleanza, che alcuni ritenevano sbagliata, andava oltre ogni considerazione formale. I libri di narrativa e memorialistica pubblicati nel dopoguerra da coloro che furono, appunto, “dalla parte sbagliata” lo stanno a dimostrare.
Quindi quel che è avvenuto il 25 aprile 2024 dovrebbe considerarsi un passo indietro rispetto a tutto ciò, ma un governo di centro-destra, anzi di destra-centro, accusato ogni piè sospinto di essere “fascista” pur se eletto con votazioni democratiche, forse non poteva fare altro istituzionalmente parlando. Comunque troppo poco per il famoso tuttologo Aldo Cazzullo (quello che scrive anche tre articoli al giorno sul Corriere della Sera e non so quanti libri ogni anno) che in un fondo sul suo giornale del 26 aprile intitolato Bastava un gesto ha affermato che è stata “una occasione mancata” perché Giorgia Meloni non ha pronunciato la parola-chiave, diciamo pure la parolina magica per accedere ai salotti buoni della democrazia italica (a livello internazionale invece se ne fregano e l’apprezzano), proclamandosi apertis verbis “antifascista”!
A differenza dunque della esortazione dell’attuale Presidente della Repubblica, dirsi antifascista significa essere dalla parte della guerra civile non dell’unità della Nazione, come altri ben più importanti di me hanno affermato, quasi a dare una risposta indiretta alle pretese cazzulliane. Si vedano ad esempio le autorevoli firme de Il Giornale Vittorio Feltri (La targa antifascista è antidemocratica, 25 aprile) ed Alessandro Sallusti (Perché oggi non posso dirmi antifascista, 25 aprile), preceduti da I sette motivi per non sentirsi obbligati a dichiararsi antifascisti, un puntuale e puntiglioso intervento di Filippo Facci (24 aprile), vero e proprio memorandum per chi è vittima del conformismo politico e del buonismo assoluto, come appunto la prolifica penna del Corriere…
Il fatto è che si è verificato col tempo uno slittamento semantico: un termine che indicava specificatamente chi si opponeva al regime mussoliniani è diventato nei decenni una posizione per indicare genericamente gli avversari della destra (fascista o meno che fosse), e poi ancor più vagamente gli avversari del potere in quanto tale, e questo si può dire in quasi tutto il mondo: “superando le emozioni che il termine suscita, ci rendiamo conto che l’espressione storica dell’antifascismo si è trasformata nel tempo in una verità assoluta per la quale l’equazione antifascismo uguale democrazia non teme smentite” come scrive lo storico Roberto Chiarini (La vera storia dell’antifascismo, in Il Giornale, 5 maggio 2024). Insomma, qualcosa di ormai avulso dal suo specifico significato originario e dal suo contesto storico-politico.
Inoltre sembra proprio che non ci si renda conto, a cominciare dal Signor Presidente della Repubblica, che tutto ciò conduce ad un risultato paradossale. Un “Ora e sempre antifascismo!” vuol dire non solo avallare la teoria della buonanima di Umberto Eco che parlava di Ur-Fascismo, un fascismo primordiale ed eterno (sicché persino Giulio Cesare si poteva definire tale!), ma anche le tesi di coloro che durante il Ventennio propugnavano l’universalità del fascismo come i CAUR, la Scuola di Mistica Fascista, Berto Ricci e il suo – appunto – L’Universale. A contrario si avallano queste posizioni, il che dal punto di vista dell’antifascismo militante e di Stato è contraddittorio e alquanto ridicolo: a voler essere sempre e comunque contro il fascismo ci si ritrova infatti accanto agli iperfascisti e con il fascismo che da idea politica assurge all’empireo di una idea metafisica!
Forse non aveva tutti i torti Ennio Flaiano a dire che peggio del fascismo c’è solo l’antifascismo…
Ottimo articolo
Eccellente e condivisibile articolo