Forse non è corretto definire minimal la scenografia di “Stèfano”, perché l’essenziale qui esprime miseria. Qui miseri sono persino i sogni, anzi soprattutto i sogni.
“Stèfano” è lo spettacolo tratto dall’omonima pièce di Armando Discepolo, uno dei più importanti drammaturghi argentini. Discepolo scrisse nei primi anni Trenta del secolo scorso le sue opere più belle tra cui “Stèfano” nel 1928. Portò nell’Argentina prima del peronismo la letteratura grottesca (Criollo Grotesque), negli anni della grande emigrazione italiana verso Buenos Aires. Tre milioni di italiani nel 1929 e ancora adesso una comunità integrata nel territorio ed espressione di un meticciato culturale e linguistico. Discepolo, anche lui di origini italiane, registra nelle sue opere l’eco di quella stagione di migrazioni fagocitata dalla contraddizione tra necessità di manodopera e di popolamento e le repressioni dei lavoratori nel 1924. “Stèfano” è uno dei tanti ritratti umani di Discepolo – almeno tre titoli portano il nome di un personaggio- calati in contesti familiari in cui il conflitto esterno si innerva nell’interiorità dei personaggi.
Stefano è un musicista diplomato al Conservatorio di Napoli che arriva in Argentina col desiderio di diventare famoso, scrivere una grande opera e rendere ricco se stesso e la famiglia che ha trascinato con sé nel sogno americano. Solo che il sud America non è New York e lì Stefano viene schiacciato dalla povertà e dai limiti della sua capacità artistica. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile d’Abruzzo con la collaborazione del Teatro Abeliano di Bari e del Teatro del Sangro, fondato da Stefano Angelucci Marino, ha debuttato lo scorso febbraio al Teatro Comunale di Lanciano e ora è in tournèe. Dopo Messina, la compagnia si sposterà a Caserta, Bari, Lecce e Barletta.
Angelucci firma la regia dello spettacolo e ne ha curato l’adattamento “Il testo originale è stato in parte riadattato: abbiamo sfrondato le due ore del testo originario e tolto passaggi più lunghi per farlo stare nei settantacinque minuti della messinscena – dice il regista raggiunto dopo la replica siciliana- In Argentina questo è il testo che ha dato il battesimo al grottesco criollo ossia al genere del grottesco che mette in evidenza tutte le contraddizioni della società contemporanea e del modello economico-liberale che iniziava ad esplodere e a non dare risposte già alla fine dell’800, periodo in cui il testo è ambientato”.
Tutto lo spettacolo si condensa in un cono di luce da cui emergono gli scaffali di una libreria pieni di fogli e spartiti, davanti due ordini di banchi, come quelli di una chiesa: seduti a formare una piramide i personaggi. La luce gialla svela un dramma della disperazione di una famiglia di italiani emigrati in Argentina e l’ossessione di Stefano, il protagonista. Altri indizi, le canottiere primo ‘900 degli uomini e i grembiuli delle donne, marcano il senso di rovina e strizzano l’occhio ai descamisados di Peròn mentre il tango diventa l’epicedio di un manipolo di disperati. C’è tutto in questo spettacolo: la fame e il sogno “La pasta è meglio della musica” grida il vecchio padre (Vito Signorile) al figlio Stefano (interpretato dallo stesso Angelucci), la rabbia e la pena nelle parole soprattutto delle due donne (Tina Tempesta la madre e Rossella Gesini la moglie Margherita) “Siamo costretti a rubare l’aria, tu non meriti il mio perdono”, l’ingenuità, la speranza e la lealtà nelle parole dei figli e dell’allievo di Stefano. Uno spettacolo intenso e amaro in cui gli attori, in particolare il versatile Paolo Del Peschio, hanno saputo padroneggiare con mestiere un testo complesso e restituirne l’ambientazione anche grazie alla triangolazione di musica, movimenti e parole. Se queste ultime sono lasciate a dialoghi secchi e sincopati, i movimenti esaltano le radici culturali dell’operazione drammaturgica coniugando il teatro delle maschere di ascendenza plautina e la tradizione dei murales e delle bambole “Boca” argentine.
“L’uso della maschera contemporanea è una caratteristica della nostra compagnia e pratichiamo anche l’uso di maschere della commedia dell’arte già da vent’anni. E’ il nostro specifico artistico” conferma Angelucci. Le maschere spostano lo stile della messinscena dal verismo del pastiche dialettale della lingua all’espressionismo dell’anima dei personaggi, come sottolinea il regista a proposito dell’interpretazione di Del Peschio “Un attore fa più ruoli perché è una scelta artistica dettata da un codice antinaturalistico”.
Il centro del dramma è l’uomo con il carico di sconfitte, carnefice di se stesso, angosciato dalle colpe e dal peso dei ruoli familiari, infelice fino alla follia, che pare affacciarsi nelle battute finali, perché si emigra sempre da se stessi prima che dalla fame. Il tema della migrazione resta sullo sfondo, a tratti appare quasi posticcio, mentre la messinscena vira su una commedia dell’arte tutta intrisa di Novecento in cui la maschera svela il carattere invece di celarlo.
Forse più conosciuto dal gran pubblico d’oggi il fratello minore, Enrique Santos Discépolo Deluchi (Buenos Aires, 1901 – 1951) musicista, compositore e regista. Celebre compositore di tanghi, nacque nel barrio porteño di Balvanera. Nel 1927 compone il tango “Esta noche me emborracho”, reso popolare da Azucena Maizani: è un grande successo. Nel 1935 viaggia in Europa ed al ritorno scrive e compone i suoi tanghi più importanti: “Cambalache” (1935), “Desencanto” (1937), “Alma de bandoneón” (1935), “Canción desesperada” (1944). “Cambalache” (Rigattiere) in particolare diventa un conosciutissimo, amaro ritratto del mondo d’oggi. Proibito dai militari al potere per la sua carica di ‘negatività’ considerata ‘antiargentina’. Traduco alcune parti:
‘Che il mondo sia stato e sarà sempre
una porcheria, questo lo so.
Ci sono sempre stati i ladri,
gli spregiudicati e i fregati,
i contenti e gli amareggiati,
i bari e i doppiogiochisti.
Ma che il ventesimo secolo
sia un’ostentazione
di cattiveria insolente
non si può negare.
Viviamo invischiati in un groviglio
e nello stesso fango
tutti quanti ci sguazziamo.
Oggi sembra che sia lo stesso
essere leale o traditore,
ignorante, saggio o ladro,
presuntuoso, truffatore…
È tutto uguale!
Non c’è niente che sia meglio!
Un asino vale quanto
un grande professore.
Se uno vive nella menzogna
e un altro ruba per ambizione,
non importa che sia prete,
fannullone, re di bastoni,
faccia tosta o clandestino.
Tutti quanti sono signori,
tutti quanti sono ladroni.
Come nelle vetrine irriverenti
dei rigattieri
la vita è tutta mescolata,
e ferita da una sciabola sgangherata
puoi veder piangere la Bibbia
accanto a uno scaldabagno.
Chi non piagnucola non rosica
e chi non ruba è uno scemo.
Se chi lavora notte e giorno
come un bue vale quanto
il magnaccia che campa di donne,
l’assassino, l’ubriacone
o chi vive fuori dalla legge…’.