Sono stato a pranzo da “Il Dollaro”; si chiama così perché, se ti attieni al menu indicato, spendi quanto un dollaro, seicento lire. Vado lì perché una cassiera brigolosa mi sorride e non batte alcuni miei piatti facendomi risparmiare. Con l’appetito e la sazietà ho un conto aperto che si protrae negli anni. In guerra, a far fronte alla penuria di cibo, c’erano le tessere annonarie che davano diritto ai ritiri di alimenti contingentati e qualcosa si rimediava al mercato nero. I genitori, gli adulti privandosi lorofacevano in modo che noi bambini, ragazzini, non sentissimo i morsi della fame. Malgrado questo mi è rimasto una sindrome di stomaco vuoto, atavica, per cui vorrei sempre fare una scorta come i cammelli. Sono predisposto a esagerazioni culinarie.
Passeggio sino al Castello Sforzesco, mi accomodo su una panchina. Un’aria timida, frizzante, sta finendo di stanare e nebulizzare la nebbia che ristagna e si annida.
La datazione? Facile, in un ristorante a poca distanza da “Il Dollaro” c’è Al Bano a servire. Quando esci dalla Stazione Centrale entri in un girone dantesco dell’inferno, sprofondi in un’atmosfera irreale creata da una fitta nebbia che ingoia e cela tutto. L’idroscalo è imbellettato falsamente da mare: le sdraio con i teli umidi, le ciambelle rosse per il plagio e sciami di zanzare voraci sono le sue sirene. Il cielo azzurro fagocitato, una chimera. E ci sono i ghisa con un elmo bianco che sembra un panettone e che fischiano, fischiano. Ecco la Milano di allora.
Sono un giovane di “belle speranze” ma dal futuro incerto. “Ah trovare una donna ricca che mi porti al successo!” prorompo. Non termino il pensiero bizzarro e mi raggiungono Julien Sorel e Georges Duroy, il celebre Bel Ami.
Il più pressante è Julien e si impone con la sua vicenda. Io sono restio a dargli spazio perché l’autore, Stendhal, ha scrollato il capo come a dirmi di non affezionarmi. Mi considera suo amico in quanto lettore. E lui sa, ha attinto la trama del romanzo da la Gazette des tribunaux. Inoltre il titolo “Il rosso e il nero” a me,romantico, non suggerisce la roulette ma la passione e il lutto. Julien ha frequentato il seminario, e malgrado l’abiura il talare ce l’ha appiccicato all’anima e forse per questo spregio emana un effluvio di sfiga.
Nella sua famiglia una profonda idiosincrasia tra il padre i fratelli lavoratori delle braccia, e lui, lavoratore della mente. “Maledetto sfaccendato”, l’epiteto riservatogli. La condizione sociale carbura il suo distacco. Il sindaco signor de Renal lo assume come precettore dei figli. Julien si dedica alla nuova mansione ma invece di curare i pargoli gli accade di prestare i suoi particolari servigi alla giovane moglie del sindaco, complice un grande tiglio. La signora cavalca felicità e depravazione in confusione e la tresca continua. Vede le fiamme dell’inferno ma non le importa. Julien appoggia la scala ed entra dalla finestra, ma non solo questo: gli arrivano promozioni e tanti luigi e franchi. L’imprudenza li tradisce, scoppia lo scandalo e Julien si rifugia in un Seminario che considera eguale alla prigione.
Per sua fortuna o sfortuna l’abate Pirard gli fa avere il posto di segretario dal Marchese de La Mole. Anche qui Julien si dà da fare e seduce la figlia Mathilde. Per lei amore, per Julien anche ambizione, come sempre, e pensa ai luigi che solfeggiano nelle tasche di quei nobili. Un giorno lei finge di volerlo lasciare e lui sguaina una spada medievale. La marchesina al pensiero che avrebbe potuto ucciderla per passione si innamora perdutamene. Strane le donne!
Mathilde incinta chiede al padre di potersi sposare. Ahimè, il marchese chiede referenze alla signora de Renal che dipinge il suo ex amante, Julien, come un indegno arrivista. Julien ritorna al paese trova la signora in chiesa e le tira due pistolettate, ferendola.
Arrestato, incarcerato e processato. Con la sua arringa sprezzante si compra la condanna mortale: “Io merito la morte e l’attendo.” Mathilde mette su un gran intrigo per tentare di salvarlo. E la signora de Renal impugna di nuovo la penna per scrivere in suo favore ai 36 giurati. Malauguratamente interviene Stendhal e mette in bocca all’accusato quelle parole arroganti. Perché? Si toglie lo sfizio di un predicozzo sociale ma lo manda alla ghigliottina. È Julien che condanna quei borghesi arricchiti e difende gli oppressi dalla miseria, è lui che si erge giudice ma si guadagna il patibolo. Stendhal è un sadico, si eleva adarruffapopoli, a demagogo ma la testa è del povero Julien. Io provo per lui la simpatia che si ha per i perdenti, se fossi stato lui avrei scelto un altro autore.
Purtroppo si verifica quello che paventavo e sulla panchina c’è la testa di Julien. Che fare? Provvidenziale l’arrivo di Mathilde che prende l’involto sale in carrozza, se lo mette sulle ginocchia e si dirige alla grotta da lui indicata. Con un sospiro di sollievo adesso posso dedicarmi a Bel Ami, Georges Duroy. Ah la signora Renal colpevole per la sua lettera delatoria e ingiuriosa azzannata dai rimorsi morirà presto di crepacuore.
Bel Ami lancia occhiate assatanate alle mammine che passano spingendo le carrozzelle e mi fa vergognare. Prevedo un incontro breve mi è antipatico. E devo ammettere che sotto sotto lo invidio: è abile o ha fortuna? Borioso, i baffi da manubrio bici e incede impettito come avesse un bastone infilato nella schiena. Chi crede di essere?
Io lo suppongo un Siffredi ante litteram ma l’autore, Maupassant, non adopera il centimetro. Georges ha la Legion d’Onore! Eppure è partito con pochi franchi indeciso se usarli per il pranzo o per boccali di birra sul boulevard. La svolta è con l’impiego al giornale “La via francese” dove si inventa interviste, si arrangia, ma l’ascesa sociale avviene tramite le avventure amorose. Clotilde è la prima e gli dà la casa. Dopo, la moglie del direttore del giornale, Virginie Walter. Quindi sposa Madelain la vedova del suo protettore Forestier, abbinata a ricca dote ed eredità. Un matrimonio corna contro corna, e quando ritiene il momento opportuno fa beccare la moglie con la prova dell’adulterio. Sotto le lenzuola c’è l’ignudo Laroche-Mathieu, ministro degli affari esteri. Quindi divorzia e porta all’altare Suzanne Walter cioè la figlia della sua amante che implora Gesù e impazzisce di dolore. È il suo trionfo, schiavo felice di denaro e titoli. E si darà alla politica con il beneplacito di Maupassant che precisa dove finirà: nel letamaio popolare del suffragio universale.
Confesso che impressionato dai suoi successi con le donne ho provato a emularlo. La sua tattica era di fingere che non lo interessassero. Invano, quelle mi ignoravano. Boh!
Il libro è un capolavoro gelido, tenuto nell’azoto liquido per rendere atermici i sentimenti. Il Croce ammira Bel Ami e per assolversi cerca disperatamente una religiosità che non c’è. La religione è considerata un comodo paravento da usare e basta. Maupassant sembra spaventarsi della amoralità dei suoi personaggi e si affida al poeta De Varenne per affermare che esisteanche gente dignitosa. Una riparazione che non regge. L’umanità che sia inutile o no ha voglia di vivere e vivrà, se ne frega delle qualifiche. Maupassant è malato, ha la sifilide, e agita lo spauracchio della morte, nello specifico la barba che cresce a un cadavere. Usa quel terrore come punizione ma sbaglia perché i vermi banchetteranno con tutti, sia che tu sia nichilista o positivo.
Mi alzo, devo andare e uno quasi mi investe. “Sono Clyde Griffith.” Chi sarà? Il nome non mi dice nulla. “Mi scusi ho fretta, faccio tardi al lavoro,” lo fermo. “Un momento,” e lo pretende. “Sono il Clyde Griffith di una tragedia americana, il libro di Dreiser.” Vede che lo scanso e insiste: “Lo sceneggiato tv con la Virna Lisi e il Bentivegna, non ricorda? E il film Un posto al sole ha preso 9 Oscar.” Mi soffermo e lui petulante attacca il suo riff: “Ero fidanzato con un’operaia, Roberta. Ho intrecciato una relazione con Sondra, la figlia del padrone della fabbrica. Potevo diventare anch’io un padrone ma Roberta mi era d’intralcio e così l’ho annegata.” Quasi si vanta. “Magari era anche incinta,” ipotizzo. “Sì,” mi conferma. Eh ormai sono un esperto. Non sono un bacchettone ma la sua perfidia mi sconvolge. Passo al tu: “Sei stato almeno condannato?” “Sì, alla sedia elettrica.” Come se fosse un encomio. “Bene,” mi sfugge a mezza voce. Lo pianto lì e mi affretto. Si è sparsa la voce e i seduttori arrivano a frotte.
Ripasso in Galleria e calpesto le palle al toro sperando che mi porti un po’ della sorte di Bel Ami. Rido della mia idea balzana degli scalatori amorosi però, se la letteratura ha prestato così tante pagine, non dev’essere molto peregrina. Tutti questi arrampicatori più agili di Tarzan. E… non conosciamo nessuno??
gianfranco andorno