Il federalismo non è di destra né di sinistra. E’una opzione rispetto all’esigenza del buon governo dei territori, dal Mezzogiorno al Settentrione d’Italia. Né è la moda di un’altra stagione politica, quella della Lega impegnata ad affermare la propria identità nordista, tutta giocata sull’autonomia fiscale ed impositiva degli enti locali.
Oggi, alla vigilia di un’importante scadenza elettorale, l’idea federalista va vista come una nuova sfida declinata in ragione di una più vasta riforma della Costituzione, secondo un chiaro indirizzo presidenzialista che, rispetto alla volontà di decentrare poteri e competenze, si ponga quale elemento equilibratore e garante dell’unità nazionale.
In questa prospettiva il tema del federalismo (fiscale e non solo) può diventare anche un importante elemento di riflessione e di confronto sullo Stato sociale, sui suoi costi e sulle sue inefficienze, sulla sua oggettiva difficoltà a rispondere ai bisogni reali del cittadino e delle famiglie. Nel momento in cui si richiamano le regioni e gli enti locali, oggetto della “sussidiarietà verticale”, all’ ottimizzazione dei servizi, appare sempre più necessario individuare nella “sussidiarietà orizzontale” lo strumento concreto, attraverso il quale realizzare l’auspicata politica del rigore, ma anche della nuova efficienza, della solidarietà ed insieme della parsimonia.
Da questo punto di vista si tratta di una grande sfida di libertà ed è anche il segno di un autentico federalismo che riconosca ai cittadini, attraverso l’associazionismo ed il volontariato, il diritto-dovere di vedere soddisfatte le proprie domande di servizi e di autentica solidarietà sociale.
La riforma presidenzialista rappresenta la “cornice” di un sistema entro cui coniugare presidenzialismo, federalismo fiscale differenziato, revisione del rapporto di preminenza del diritto internazionale su quello nazionale, ruolo delle province. Oggi il Presidente della Repubblica viene eletto dal Parlamento riunito in seduta comune. E spesso il nome scelto è il frutto di un compromesso, non sempre ben riuscito, tra maggioranza ed opposizione.
La riforma presidenzialista riguarderebbe finalmente l’elettorato: non più fatto di parlamentari con i delegati regionali, ma il popolo. Il che rafforzerebbe la figura del Presidente, esaltandone la funzione rappresentativa (grazie all’investitura popolare) ed equilibratrice (in ragione di un rafforzamento dei suoi poteri). Con buona pace delle interpretazioni faziose alla Zagrebelsky, il quale (intervistato recentemente da “la Repubblica”) si è subito affrettato a definire il popolo italiano poco adatto al presidenzialismo, paventando “possibili derive autoritarie”.
La scommessa è in realtà ben più alta e complessa, invitando a trasformare la proposta presidenzialista e federalista in una bandiera politica e sociale chiara e comprensibile per tutti, in grado di diventare un essenziale strumento di partecipazione e di costruzione del consenso.
Come scriveva, nell’immediato dopoguerra, sul tema del regionalismo, Gioacchino Volpe, grande storico di scuola nazionale “qualsiasi rimaneggiamento istituzionale è utile solo in quanto abbia dietro di sé una più salda trama di forze sociali, più alta educazione politica di collettività e di gruppi dirigenti, senso più robusto dell’interesse generale, maggiore voglia di lavorare e disposizione o rassegnazione a confermare il proprio tenore di vita a certe condizioni generali dell’economia nazionale e internazionale”.
Il rischio, oggi, di fronte all’ opzione del riformismo istituzionale è che l’opinione pubblica rimanga ai margini, considerando il processo in atto come un esercizio di ingegneria costituzionale piuttosto che un’occasione di mobilitazione politica e sociale, espressione – per dirla con Volpe – di una più salda trama di forze sociali e di un senso più robusto dell’interesse nazionale.
Il richiamo ad una gestione attenta e parsimoniosa delle risorse pubbliche, l’integrazione tra sussidiarietà verticale e sussidiarietà verticale, una più ampia visione del riformismo costituzionale in chiave presidenzialista sono elementi essenziali per fare sì che l’auspicata nuova stagione politica possa essere l’espressione di una visione partecipativa e solidale e dunque autenticamente “nazionale”. La sfida è aperta.
Il federalismo non era una soluzione ai molti problemi dell’Italia post-unitaria e ne abbiamo molte analisi coeve interessanti. Che poi il modello centralizzato alla francese non abbia prodotto i risultati sperati nel 1861 e seguenti è un altro discorso. Il sud era una battaglia comunque perduta e non è che in uno Stato Federale avrebbe migliorato la sua sorte, segnata da troppi secoli di vicende assai differenti, non solo da una maturità civica difforme, da un popolo minuto assai più analfabeta che al Centro-Nord, da un’economia e prospettive di sviluppo ben diverse. Anche se la grande emigrazione, dal 1870 al 1914, coinvolse poi tutti. Non doveva probabilmente essere imbarcato nella costruzione unitaria (il Piemonte non era la Prussia di Bismarck, la Campania non era la Baviera), per il bene di tutti, ma certo la storia non si fa con i se.