«L’aria si riscalda nell’ardore delle rose,
che sfoggiano un sorriso selvatico contro la morte.»
Questi splendidi versi sono tratti dalla poesia Giorno d’autunno contenuta nella raccolta Il coro selvaggio di Knut Hamsun (1859-1952), il grande scrittore norvegese insignito nel 1920 del premio Nobel. Il coro selvaggio è l’unico libro di poesie pubblicato in vita dall’autore nel 1904 e più volte ristampato con rifacimenti, modifiche, integrazioni fino all’edizione definitiva del 1934. In esso risuona l’anima romantica e naturalistica di Hamsun che si era compiutamente espressa in romanzi come Pan, Il risveglio della terra, Sotto la stella d’autunno.
Quelle rose che sorridono ai tepori dell’estate di San Martino sono l’unica vera consolazione alla tristezza che proviene dalla consapevolezza della nostra finitudine. Nel grande ritmo cosmico della natura ci si sente comunque a casa. Tanto che in un’altra poesia, Luogo di sepoltura, il poeta invoca di poter finire i suoi giorni nel bosco:
«Conosco bene il bosco, sono suo figlio,
non mi rifiuterà l’umile preghiera
di morire tra i suoi cespugli di mirtillo rosso.»
Le rose nei versi citati in apertura rimandano ai due grandi temi della narrativa di Hamsun che sono tra loro strettamente legati: la natura e l’amore.
“Il coro selvaggio” del titolo della raccolta allude a quella «grande musica della natura», a quei sussurri della terra e del cielo che si odono soprattutto di notte:
«Ascolto il sussurro dalle cime e dalle valli
e sento la mia anima risuonare come una corda
nel grande coro.
Poi le tenebre coprono i sentieri dei miei sogni,
mi addormento sul mio letto di muschio»
(Cosa sussurra nella notte)
E alla visione panica e paganeggiante della natura vivente, coi suoi cicli e i suoi ritmi, obbedisce la vita rurale con i suoi lavori stagionali, le sue tradizioni e i suoi miti:
«E il contadino falcia il suo grano
e i cavalieri cavalcano con la piuma al cappello
e i cani abbaiano tra i cespugli e la boscaglia
e la rosa canina è nuda con le sue spine.
[…]
Oh, autunno, con la potenza della tua bellezza –
ecco, si accende in cielo l’alfabeto di fuoco
che in passato fu decifrato da sacerdoti e profeti,
e che oggi guida ogni viandante di sera».
(Giorno d’autunno)
L’amore esplode con la stessa forza trascinante della primavera, con la sua energia germogliante. È passione, fatalità, gioco nel «giardino della vita», in cui si alternano rapidamente seduzione, sguardi, desiderio che si alterna a odio suscitato dalla ripulsa. L’amore rompe ogni schema. Quasi mai ha una conclusione felice. Ma tutto è filtrato da versi delicati e da un filo di ironia:
«Ti ringrazio, Lina, di tutto ciò che mi hai dato
ogni mattina col sole ad oriente,
Certo, sei dovuta andare quando lui ti ha chiamata prima,
poiché se l’avessi ingannato, avresti fatto come fanno i fidanzati.
Ma a me dicesti subito sì con un cenno della testa
Lui te lo sposi in autunno.»
(Lina)
Ed ancora:
«Mi ricordo adesso del baccano della festa,
della tempesta che sollevò il suo petto,
e poi dell’ultimo sorriso rosso sulla porta.
[…]
Oh, tu e lui sembravate due puledri selvaggi!
Odo solo il suono della terra selvaggia,
tutto dorme, il giorno albeggia.
Spengo ciò che ella accese,
così il cuore torna di nuovo grigio e tranquillo.»
(Dopo la festa)
E nella terza poesia della sezione Poesie febbrili addirittura «nel giro di due strofe, l’io lirico prima maledice e poi benedice la donna amata per il tempo e l’amore che gli ha dedicato» (Luca Taglianetti, Introduzione a Il coro selvaggio, Lindau, 2022):
«Che Dio ti punisca, Alvide,
hai spento tutto il mio fuoco
[…]
Mi hai porto la tua mano, la tua bocca
e sei stata mia per un breve momento,
che Dio ti rallegri, Alvide.»
Knut Hamsun si oppone alla vita moderna con i suoi ritmi convulsi, lontani dalla natura, condanna la civiltà industriale e rifiuta il lavoro meccanico, alienante della fabbrica. In Lettera in cielo a Byron, che è poi una lunga invettiva contro la modernità e soprattutto contro il femminismo che stravolge le naturali differenze dei sessi, il suo appello per un ritorno alla vita dei campi e alla natura assume la veste di una marcata posizione ideologica:
«La nostra terra è diventata un ospizio per l’umanità.
[…]
Ma il canto – il canto abbandona il Paese
e l’ululato si ode per strade e valli:
movimento operaio, vapore, capitale».
Questa posizione lo porterà istintivamente a simpatizzare per l’ala verde del nazionalsocialismo capeggiata dal ministro dell’agricoltura del Terzo Reich, Walther Darré, che con la sua politica del “sangue e suolo” cercava di salvaguardare e valorizzare le piccole proprietà contadine avviando anche pratiche di bioagricoltura. «È la posizione – sottolinea Giuseppe Conte – che lo porterà ad aderire al nazismo, ad appoggiare il governo Quisling, e a pagarla nell’immediato dopoguerra con l’onta dei suoi libri bruciati sulle pubbliche piazze in tante città della Norvegia e, già quasi novantenne, con il peso di una reclusione in manicomio. Come nel caso di Pound, le democrazie vittoriose non hanno accettato che esistesse una radicale opposizione interna, più che politica estetica e spirituale, se non confinandola nell’ambito clinico, nella follia. Perché non c’è dubbio che Hamsun, come Pound, non commise nessun crimine del nazifascismo: ma non c’è dubbio che entrambi, per ragioni diverse, abbiano voluto lo scontro con una democrazia intesa come dominio del denaro e della massa, come usura per Pound e come nemica del rapporto organico, cosmico tra uomo e natura per Hamsun» (“Tutto l’Hamsun poeta, al naturale”, in il Giornale, 7 Maggio 2022).
Forse presago del suo destino Hamsun si lascia andare ad una nota di pessimismo quando esclama che «Fra cent’anni tutto sarà dimenticato». I temi da lui agitati restano però attuali, mentre la civiltà industriale prosegue la sua folle corsa verso il baratro.