Un noir ma non è solo un noir. Terminate le 411 pagine di “Il figlio del padre” dello spagnolo Víctor del Árbol ci si rende conto che l’autore, in Italia ancora poco conosciuto, si è dato un obiettivo più ambizioso: ricostruire quasi un secolo di storia patria attraverso le vicissitudini di una famiglia. Una famiglia maledetta, che sembra tramandare di padre in figlio l’odio per se stessi e per tutto ciò che li circonda. «Dicono che siamo identici, due gocce d’acqua alla stessa età. Essere colui che rifiuti, vederlo ogni mattina quando ti guardi allo specchio per raderti, quando ti lavi i denti, seduto sul water, è difficile. Lo stesso naso, gli stessi occhi scuri, le stesse sopracciglia, la stessa bocca. Perfino il modo di ridere. Di colpo sei tuo padre. Ti sei trasformato in ciò che più odi».
Il romanzo comincia dalla fine: sin dalle prime pagine si sa chi è l’assassino, cioè il protagonista, Diego Martìn, professore universitario di Barcellona, finito in carcere per aver seviziato e ucciso un giovane infermiere. Le restanti quattrocento pagine sono un viaggio all’indietro per ricostruire l’esistenza di Diego e della sua famiglia e per comprendere come un uomo colto, benestante e perfettamente inserito nella società contemporanea si sia macchiato di un crimine orribile. Per farlo, Víctor del Árbol ci guida nella storia drammatica della famiglia Martìn, dapprima nella poverissima Estremadura ai tempi della guerra civile spagnola, poi tra gli immigrati arrivati dal sud nella Barcellona industriale degli anni Sessanta, infine nei convulsi e violenti anni Ottanta, decennio della rinascita economica della Spagna ma anche del sanguinoso terrorismo separatista dell’ETA, vale a dire il periodo in cui il giovane Diego lascia la famiglia per costruirsi una vita propria.
Diego, però, non riesce a superare il ricordo dello squallore, delle umiliazioni e delle ferite subite, soprattutto da parte di suo padre. Di quell’uomo, vittima di una maledizione che sembra colpire i maschi della sua famiglia, ciò che resta è un’eredità fatta solo di sopraffazione e per il protagonista il desiderio più forte è sempre stato quello di non diventare mai come lui. Per questo se ne è andato di casa che era ancora giovanissimo e ha compiuto ogni sforzo per essere ciò che è ora. Invece, la notizia della morte del padre, che non vede da vent’anni, lo fa precipitare di nuovo in quell’inferno. Tornare in Estremadura, per gestire un’eredità che gli è stata assegnata proprio da quel genitore ripudiato, lo obbliga a rivangare il passato per chiudere i conti con la madre e i fratelli e, soprattutto, con il fantasma che lo perseguita. Per far ciò il prezzo da pagare è però altissimo: diventare il figlio di suo padre.
“Il figlio del padre”, tradotto in modo magistrale da Pierpaolo Marchetti, è anche il racconto di tre diverse generazioni di uomini. Il nonno Simòn, che ha combattuto la guerra civile dalla parte dei franchisti e nel 1941 si arruola, non troppo volontariamente, nella famosa Divisiòn Azul, il contingente spagnolo mandato in Russia a combattere a fianco dei tedeschi. Poi il padre Antonio, ribelle tenero e violento, che ha passato gli anni della giovinezza nel Tercio, la legione straniera spagnola, in Marocco e nel Sahara, e che da adulto è costretto a lavorare in fabbrica a Barcellona per sostenere una famiglia che non ama e dalla quale non si sente amato. E infine Diego, il primo ad aver studiato, il primo ad essere riuscito nell’ascesa sociale verso il benessere eppure insoddisfatto della propria vita e obbligato a confrontarsi ogni giorno con i tanti scheletri nell’armadio.
Non mancano le figure femminili, che rappresentano la parte migliore della famiglia Martìn senza tuttavia cadere nel buonismo stucchevole e di maniera: la nonna Alma Virtudes, tipica donna del primo Novecento salda e paziente, in grado di mandare avanti da sola una famiglia; la mamma nevrotica e manesca con tendenze alcoliste e la sorella minore di Diego, Liria, ragazza fragile e sognatrice intorno alla quale ruota l’intreccio criminale del romanzo.
“Il figlio del padre” è in una certa misura anche un romanzo autobiografico: nato a Barcellona nel 1968, Del Árbol è infatti figlio di immigrati dal sud della Spagna ed è cresciuto insieme ad altri quattro fratelli in una famiglia molto modesta che viveva nei sobborghi meridionali del capoluogo catalano. Dopo aver trascorso cinque anni in seminario, il giovane Víctor ha deciso di cambiare rotta e si è laureato in Storia all’università di Barcellona. Poi è entrato nella polizia locale catalana e nel 2006 ha pubblicato il suo primo romanzo, “El peso de los muertos”, che gli è valso il Premio Tiflos e l’ha messo in luce nel mondo della “novela negra” spagnola. In seguito sono arrivati altri otto romanzi, incluso quest’ultimo, e una lunga lista di premi sia in Spagna che in Francia. Le opere di Víctor del Árbol sono state tradotte inoltre in Gran Bretagna, Polonia, Brasile e Cina.
«Attraverso la storia della famiglia Martín ho cercato di spiegare l’evoluzione della Spagna dalla fine del 19° secolo sino al 21°», ha spiegato Del Árbol in un’intervista al quotidiano El Español. «Il protagonista è uscito da una povertà assoluta per diventare un professore universitario felicemente sposato e con una vita agiata, tuttavia per realizzare tutto ciò Diego ha rinunciato alle proprie radici, diventando estraneo alla propria vita, in realtà piena di segreti, traumi e contraddizioni. Lui stesso non sa nemmeno più chi sia». Con la controversa figura del professore, osserva ancora Del Árbol, «ritraggo un’intera generazione, la mia, quella dei figli di una massiccia emigrazione interna che, sradicati dai paesi dei nostri genitori, sono cresciuti in quelle periferie invisibili costruite dopo l’esodo dalle campagne degli Anni Sessanta e Settanta». E conclude con un aforisma molto noir, che riporta questo romanzo nei binari della “novela negra” più cupa: «L’odio è un’eredità, proprio come lo sono gli affetti, e su questa contraddizione costruiamo la nostra memoria».
* “Il figlio del padre”, di Víctor del Árbol, Elliot, 411 pagine, 19 euro