“Ciò che attraversa il tempo è lo stile. Lo stile è tutto”: parole che potrebbero benissimo sgorgare dalla penna di un Gomez Davila o di un annoiato dandy francese, magari perfino di un Rigaut o di un Drieu la Rochelle e invece, insospettabilmente, furono pronunciate da una giovane scrittrice italo-cubana, le cui “novelle” giovanili, prima ancora dei romanzi della maturità, saranno invero all’altezza di una dichiarazione di intenti così altisonante.
La prima, forse ancora un po’ acerba, raccolta di racconti di Alba de Céspedes, “L’anima degli altri”, è perfettamente incastonata, come una gemma finora velata dal tempo, nella linea editoriale di Cliquot, che negli ultimi anni ha rispolverato Brianna Carafa e Stelio Mattioni: eterea e raffinata, ma anche multiforme e perfino inquietante, proprio come possono esserlo la psiche e l’anima umana (soprattutto femminile) e i rapporti interpersonali (soprattutto familiari).
Alba, cresciuta in una famiglia colta, cosmopolita e progressista, figlia dell’ambasciatore cubano a Roma e poi, ancora adolescente, moglie del conte Antinoro, di cui si liberò in quattro e quattr’otto prima ancora di inaugurare, nel 1935, la sua carriera di scrittrice e di prendere parte alla Resistenza, visse tra Roma e Parigi, ma conobbe assai bene Venezia e, più in generale, tutta l’Italia, e ciò traspare da ogni riga dei suoi racconti: se quello ambientato alla Biennale, “Nudo dell’Ottocento”, si apre con una splendida descrizione del “paesaggio emotivo” veneziano, radicalmente diverso dalle banali descrizioni da guida turistica – oltre a tratteggiare un ritratto della protagonista, arida e vanitosa, degno di un romanzo della Némirovsky -, quello ambientato in Abruzzo, “Il miracolo”, per l’asprezza degli eventi narrati e del paesaggio che fa loro da sfondo pare quasi un brano di Sciascia o di Vittorini, o addirittura una delle fotografie di folklore siciliano di Ferdinando Scianna.
Pur essendo più “concreta” e pragmatica del suo onirico conterraneo Abilio Estévez, meritevolmente edito da Adelphi, Alba ha comunque il vezzo di scrivere di notte, come i due suoi colleghi di successo protagonisti di due dei suoi racconti, ed è abilissima nell’illustrare, senza proclami magniloquenti ma con una meticolosa attenzione per il dettaglio, quanto “pari siano” uomini e donne, nelle azioni e nei sentimenti più alti come in quelli più bassi, e specialmente in questi ultimi – crudeltà, aridità, vanità, tradimento. Ciò che differenzia le donne, è, al limite, come dirà l’autrice stessa durante un dialogo con Natalia Ginzburg, “la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne”.
Ciò che più colpisce, però, procedendo con la lettura, è che il personaggio, sicuramente affascinante e quasi romanzesco, della de Céspedes non finisce affatto per fagocitare la sua produzione letteraria: al contrario essa è acuta e tagliente, specie per la sua giovane età, ma senza sfociare nel cinismo à la Dorothy Parker, “femminile” e “femminista” pur essendo del tutto priva di stucchevolezza e manierismi baroccheggianti (altro che Sibilla Aleramo!), e assolutamente, limpidamente, indiscutibilmente mediterranea: non si può infatti descrivere l’“Arsura” dell’omonimo racconto e il languore dell’adolescenza che l’accompagna, senza aver vissuto per almeno qualche decennio a Roma, a Napoli o in Sicilia, in Grecia o magari nel Sud della Francia…
Una scrittrice che dedica l’ultimo racconto autobiografico ‘Con grande amore’ a Fidel Castro e alla Rivoluzione Cubana, prima di morire, ovviamente, a Parigi (patria di tutti i radical-chic), nel 1997, ottantaseienne, non mi può ispirare grande simpatia.