Quando crolla un albero secolare, non resta il ricordo della sua ombra e dello stormire dei suoi rami frondosi, ma solo il vuoto che ha lasciato nella foresta. Non è così per noi uomini, che trasmettiamo in eredità non solo i nostri patrimoni materiali, ma tutto un bagaglio di memorie che si perpetuano – per alcuni più, per altri meno – nelle generazioni a venire; a maggior ragione questo vale per chi ha lasciato importanti tracce di sé non solo in termini genetici, ma spirituali e creativi. Quando muore un grande vecchio come Raffaele La Capria, che stava per varcare la soglia del secolo di vita, la sua immortalità è affidata alle sue opere, come aveva intuito Ugo Foscolo. Ai familiari rimane il ricordo di una miriade di episodi, di slanci, di sguardi, tutti protetti nel recinto delle cose private; a tutti gli altri, il conforto delle sue opere.
Ho avuto il privilegio di conoscere il Maestro La Capria (ma lui non amava sentirsi definire tale) molti anni fa, quando, dopo la lettura del suo “La neve sul Vesuvio”, ebbi l’impudenza di mandargli il mio “La vita quotidiana a Napoli negli anni 50”, sottolineando, nella lettera di accompagnamento, la sintonia fra le sue e le mie pagine, le sue collocate negli anni 30 del Novecento, le mie nei 50. Mi rispose con una lettera vergata a mano con un tono e con apprezzamenti che porterò sempre con me. Ne seguì un rapporto prevalentemente epistolare e telefonico, improntato, da parte mia, al rispetto che si doveva e si deve a un monumento della letteratura italiana.
Ricordo un confronto dialettico sull’aria condizionata, che La Capria detestava (e ne spiegava i motivi sul “Corriere della sera”), mentre io ne difendevo l’utilità e questo a partire da esperienze e ricordi comuni; perché fra la sua e la mia generazione c’era meno distanza che non fra la generazione mia e quella dei miei nipoti. E ricordo quell’unica volta che cercai di averlo alla mia tavola, facendo leva sulla comune amicizia con Giampiero Mughini (il quale, diversamente da me, che non osavo, lo chiamava amichevolmente Dudù): malgrado gli prospettassimo di andarlo a prendere e riportarlo nella sua bella casa di piazza Grazioli, ci oppose un garbato rifiuto, perché già allora le forze non lo assistevano, e non mi sentii d’insistere.
Nel periodo delle vacanze, ci scambiavamo delle cartoline con i rituali saluti, lui dalla sua proprietà in Toscana, io dalla mia a Ischia (un’usanza, quella delle cartoline, davvero d’altri tempi!); poi ci siamo visti in più di un’occasione pubblica (la sua presenza nella giuria del premio Elsa Morante, proprio a Ischia, o a margine di qualche conferenza: l’ultima, da lui tenuta “a braccio” con straordinaria lucidità presso il Ministero dell’Interno, me lo confermò affabile e amichevole).
Per me, “napoletano della diaspora”, La Capria ha rappresentato un punto di riferimento ideale, a partire dai suoi “Ferito a morte” e “L’armonia perduta”, e poco davvero importava la nostra differente collocazione politica. Del resto, La Capria non fu mai attratto da rigidità ideologiche, pur essendo animato da passione civile: lo hanno dimostrato non solo i suoi elzeviri sul “Corriere della sera”, ma anche testi come “L’anatra zoppa” o “La mosca nella bottiglia”, in cui, con la grazia di una prosa inimitabile, mandava strali contro le criticità della “società berlusconiana”.
Ora della sua presenza fisica dovremo fare a meno: d’altra parte, soprattutto dopo la perdita dell’amata moglie, la bellissima Ilaria Occhini dei miei ricordi televisivi d’infanzia, “Dudù” – ora posso chiamarlo così – non era più lui. Una volta l’ho rivisto sotto casa sua, mentre mangiava un gelato al braccio della badante: davvero poco da spartire col sorriso trionfante che sfoggiava al braccio di Ilaria o in occasione della consegna del Premio Strega.
Che la terra ti sia lieve, caro Maestro, e che tu possa ritrovarti nel mare di Posillipo che tanto hai amato o in quello della casa di Capri dai cento scalini, che la senescenza ti costrinse ad abbandonare, ma sono certo che ritroverai ora l’armonia perduta.