Ifigenia in Tauride è una escape tragedy. Su questo inutile fare chiose. Come inutile è ricordare che sia una ilarotragedia: non muore nessuno, anzi i protagonisti fuggono verso un destino inaspettato. Il punto è proprio la fuga. Dalla Tauride, terra barbara (e potremmo aggiungere sul filo della storia, barbarizzata Crimea) fuggono nell’ordine: Ifigenia, Oreste, Pilade, la statua di Artemide, il pubblico e la tragedia.
Perché la messinscena di Jacopo Gassmann, ardimentosa e per certi versi intellettualistica, rimane sospesa tra la lettura, ben fatta, del metatesto inventato da Euripide e un escape room game. Per citarne uno, Forgotten Hill: Disillusion in cui il protagonista fugge per tornare nella città dei suoi incubi e si trova a risolvere qualche enigma dentro un ambiente bidimensionale, reale e illusorio assieme. Jacopo Gassmann è un regista raffinato e un altrettanto raffinato esegeta del testo di Euripide. La sua Ifigenia in Tauride restituisce al pubblico la problematicità di un testo in cui Euripide esprime il suo umanesimo fatto di scetticismo religioso “Gli dei che tutti proclamano di essere così sapienti, non sono più veritieri dei sogni alati”, di infida polisemia del linguaggio, di scivolamento del fato verso la τύχη ovvero la buona sorte che agisce sull’uomo e non dall’uomo. Per caso Ifigenia si trova davanti il fratello Oreste, per caso Oreste arriva nel tempio, in cui la sorella, creduta sgozzata dal padre Agamennone in Aulide, purifica le vittime umane per Artemide. Infine, è la sorte che apparecchia per loro l’occasione della fuga. Oreste e Pilade giungono nella terra dei Tauri in missione per conto di Apollo.
Oreste deve rubare la statua di Artemide per saldare l’ultimo conto con le Erinni, dopo l’assassinio della madre Clitemnestra. Catturati dai bovari tauri (nomen omen) vengono portati al tempio dove l’ignara sorella Ifigenia ha già narrato, a beneficio del pubblico, l’antefatto – un prologo che Euripide trasforma nella prima delle quattro rhesis della tragedia- e dove dovrà purificarli per il sacrificio. Lo sprezzo di Oreste condurrà a un dialogo a tre (Euripide modifica pure l’andamento sticomitico: d’altronde Oreste e Pilade sono un binomio) durante il quale avverrà lo svelamento dell’identità, l’agnizione e la preparazione del piano di fuga.
A cogliere l’occasione è Ifigenia, che qui intreccia la sua sorte di personaggio con quella di Elena dell’omonima tragedia di Euripide, rappresentata nel 412 a.C. (Ifigenia in Tauride fu rappresentata nel 414 a.C. ).
Senza volersi addentrare in un ozioso narrare le ragioni che spinsero Euripide a creare due intrecci gemelli per riflettere sulla donna e sugli dei, sulle illusioni degli esseri umani e sull’inutilità della barbarie, interessa di più riflettere – come ha fatto Gassmann – sul senso dell’indagine filosofica, più che etica, e dell’operazione distopica di Euripide. Il finale, lasciato alla sorte, è esso stesso un archè: la fuga rappresenterà la salvezza per i due disgraziati figli di una stirpe disgraziata? Il punto di domanda resta, nonostante le parole di Atena ripristinino l’ordine e inaugurino la democrazia – la filologia del testo ne fa una specie di sequel dell’Orestea-, perché collocano i fratelli nell’alveo del rito. Quel rito, strumento della necessità divina per Eschilo e Sofocle, relativizzato, invece, da Euripide grazie alla trovata del deus ex machina. Qui le parole di Atena incombono sul Teatro Greco proiettate nel vetro del monolite di acciaio e vetro, che fa da sfondo alla scena, e sono lette come se fossero titoli di coda. Ordine greco contro il caos barbaro è solo uno, peraltro il meno evidente in questa messinscena, dei temi del complesso testo euripideo. Il contrasto tra Greci e Barbari è espresso dai costumi di Gianluca Sbicca giocati su una scala di colori primari e quasi una didascalica del testo, come l’alternanza di nero e bianco negli abiti classici e sensuali di Ifiigenia.
La stessa funzione assume la scenografia kubrickiana di Gregorio Zurla. Le teche rettangolari in cui sono conservati e portati gli elementi della barbarie – ossia un animale imbalsamato, tre scheletri, una veste funebre, pugnali, una lancia, una testa di toro e un agnello pronto per l’ara sacrificale – sono la metafora e metonimia della brutalità di cui Ifigenia è al contempo vittima e carnefice, mentre quelle che contengono corona, cratere e grammofono alludono a un’armonia di là a venire per i due fratelli. La scenografia di Zurla è tutta fortemente distopica. E’ un luogo al di là del tempo o è un non luogo? Zurla pone la domanda prima ai personaggi e poi al pubblico. L’acqua del lavacro suggerisce a Ifigenia l’acqua del mare “Il mare lava le brutture degli uomini”. Gli scavi nell’orchestra sono scale per Toante e trincea per Ifigenia. Il vetro del monolite è ora parete del tempio, ora specchio parlante da cui fuoriescono i colori didascalici delle parole: Ifigenia cita il sangue e i vetri si colorano di rosso, il coro parla del mare e il mare compare; lo stesso coro si sposta al di qua e al di là della parete perché tutto è ciò che è e ciò che sembra.
Un Euripide pirandelliano forse sarebbe troppo ma il gioco scenografico e il disegno delle luci di Gianni Staropoli, evocativo dei quattro elementi empedoclei oltre che di opposizione luce- buio con il suggestivo bagno di blu delle scene finali, contribuiscono alla cancellazione della quarta parete.
Il pubblico è invitato dentro il dramma, facendosi carico dei dubbi, della fallacia della psiche e del linguaggio. E se non vuole proprio entrarci dentro, è invitato a guardarlo scorrere, come se quelli in scena fossero non persone in carne e ossa nella fattispecie del personaggio bensì finzioni di celluloide, buone a evitare terribili identificazioni. Maschere e non volti, direbbe sempre Pirandello. Ma dello scrittore non è lecito approfittare più di tanto. Sia perché le citazioni più esplicite sono figurative e tutte proiettate nel rettangolo scenografico: le teste marmoree di Oreste e Pilade, il “Sacrificio di Ifigenia” di Tiepolo, l’omaggio a un topos dell’impressionismo, ossia la giovane che guarda il mare, sebbene movimentata come in una storia di Instagram. Sia perché Gassmann ha disseminato tre indizi che portano tutti al cinema: uno stuntman all’inizio che sembra Pilade, ma poi Pilade si catapulta in scena dalla parte opposta; i fari da set cinematografico piazzati ai lati dell’orchestra; le torce a pile dei bovari verso al fine dello spettacolo. Fugge Gassmann verso la tradizione cinematografica della commedia come Euripide sfuggì a chi lo apostrofava come autore comico. Fugge, scivola (ruzzola?) quando Oreste e Pilade si alzano dalle poltroncine rosse di un multisala, il coro mostra le gambe dal red carpet e Ifigenia si traveste da Olivia Newton John in “Grease”, mentre l’immancabile pezzo rock, qui il rock alternativo “Rock Bottom Riser” di Bill Callahan, ricorda a tutti “I love my mother, I love my father, I love my sister too…I started rising, rising, rising”.
Rising: sollevati tutti dal dramma come voleva Euripide. Tutti proprio tutti, persino il pubblico che applaude e ride troppo, scappando così dal dramma terribile dei disgraziati eredi di Tantalo. Ma di questo si tratta: di un dramma terribile. E di teatro di parola. La parola che Euripide ha sollevato, verrebbe proprio da dire, a emblema della inquietudine, della fugace verità e della persuasione “Tu fai giri sempre più stretti intorno al mio cuore” dice Ifigenia al fratello, un omerismo nel testo tradotto splendidamente da Giorgio Ieranò, interprete puro della convergenza tipica dello stile del drammaturgo tra verosimiglianza e pathos.
La parola che Gassmann pone al centro della messinscena: una parola non isolata, ma esaltata dai suoni. La parola come segno, come densità di suono e significato.
Al significato pensa la protagonista Anna Della Rosa, con le movenze ieratiche (le coreografie sono di Marco Angelilli) e sillabate ricalcate dalle figure archeologiche di Ifigenia e con una varietà del ritmo recitativo che permette all’attrice di regalare un’interpretazione senza sbavature. Pensa Ivan Alovisio, un Oreste spesso troppo enfatico che, forse, nella sua distorsione dalla malinconia all’arroganza pare realizzare l’operazione metamitologica di Euripide. Forse.
Pensano Massimo Nicolini (Pilade), Alessio Esposito (il bovaro), Stefano Santospago (Toante) la cui voce veste la cavea e suggerisce l’auspicio di un ritorno dell’attore come protagonista. Pensa soprattutto Rosario Tedesco che nel ruolo del messaggero imprime la svolta della drammaturgia, da emozionale a comica.
Se l’esercito dei Tauri ammutolisce, il coro delle schiave greche (bravissime le dieci attrici dirette da Bruno De Franceschi) attraversa il crinale tra parola e musica.
E’ la musica l’architetto della messinscena. GUP Alcaro disegna un tappeto sonoro perenne: non c’è un momento di silenzio eppure nessun suono copre la parola, nemmeno quando è rarefatto oppure quando è, per usare le parole di Alcaro “ una specie di foschia acustica”. Ci sono i suoni del mare e del vento, c’è il lamento e il pianto, c’è l’urlo e il sussurro (negli “a solo” di Ifigenia che spezzano in due il verso dei dialoghi con Oreste). C’è il suono che erompe da lontano, cala sulla cavea e si propaga fino alla scena con il suo corredo di effetti digitali che lo rendono cavernoso, sgorgato dalle profondità del cielo e della psiche. Se una prova magistrale c’è in questa “Ifigenia in Tauride” è quella di GUP Alcaro.