2 dicembre 2011
Sono ad Acqui, cittadina in provincia di Alessandria, per presentare il mio libro Una famiglia italiana. A invitarmi è stato Carlo Sburlati, assessore locale alla cultura, un vulcanico ginecologo che ha trascorso la vita a nutrirsi di letteratura, arte spettacolo. E’ un uomo di destra, della destra storicamente più interessante. Collaborò a Il Borghese. Fu ammiratore di Longanesi, Guareschi, Montanelli, Flaiano, Fulchignoni. Sburlati è un signore di provincia, colto, pacato, pieno di buone intenzioni. Mi sembra che la sua voglia di evadere dalla noiosa strettoia del vivere in provincia lo abbia portato a motivazioni alte. Ma di lui, tutto sommato, mi piace soprattutto il fatto che è un medico. E’ la stessa cosa che mi portava d amare molto Dino Risi; in lui, più che il côté del regista, mi affascinava il côté médecin.
(Pag. 11)
16 dicembre 2016
Oltre alle parole delle canzoni, mi manca molto l’eleganza italiana di una volta. Oggi pomeriggio, andando in giro per strade dove impazza lo shopping, ho visto tutti vestiti nello stesso modo. Felpe, scarpe da ginnastica, piumoni imbottiti, sciarpe annodate al collo. Un vero e proprio esercito di omologati. La globalizzazione, in nome della comodità, ha imposto la dittatura dei consumi ai giovani, ai quarantenni, ai maturi. Pochi sprazzi di colore, tutti in nero, o in grigio, o blu scuro. Tutti infagottati come omini Michelin. Anche i pupi sono un concentrato di piumotti a strati. E in questo tripudio di tessuti sintetici l’eleganza italiana è sparita. Quell’eleganza che nel mondo ci invidiavano. E’ raro vedere un uomo in giacca e cravatta. Se passa qualcuno con un cappotto, sembra un alieno. E le ragazze sono tutte con calzamaglia di lana, berrettoni in testa poco donanti, nessuna che scelga la femminilità di un tailleur. Tutte con i capelli lunghi, dritti, alla Gregoraci. E i ragazzi tutti un po’ rapper o Insigne. Per non parlare dei tatuaggi alla Nainggolan, che sbucano dal collo e vanno fino alle orecchie. Chissà che cosa nascondono sotto le loro mutande.
(Pag. 142)
1 dicembre 2019
Detesto il Black Friday. Volendo affondare il coltello, provo gli stessi sentimenti per un’altra ricorrenza a stelle e strisce, Halloween. Trovo che qui da noi bastavano i vecchi cari saldi e la vecchia cara Befana, senza scomodare le streghe. Gli eroi mi piacevano di più quando avevano la faccia western di John Wayne o Gary Cooper. Detesto le trasmissioni tv che corrono dietro ai delitti. Detesto le trasmissioni tv che parlano di cucina. Detesto le trasmissioni tv che fanno litigare gli ospiti, pagati per litigare. Mi fermo qui perché in realtà detesto tutta quanta la tv. E detesto me stesso quando la faccio. Detesto anche quei cazzari in radio che fanno sempre gli spiritosi, ridono, ridono a crepapelle, buttano tutto in vacca. Istruzioni per l’uso: ridere è una cosa seria. Detesto i giovani autori italiani che vanno alla Mostra del Cinema di Venezia e, dopo il loro primo film, dicono il mio cinema. Detesto le sale cinematografiche con venti posti. Detesto vedere i trailer sul computer. Detesto quegli zombie che camminano nelle nostre città, fissando il cellulare (parlante) per trovare un indirizzo.
(Pag. 204)