L’anguilla della letteratura mondiale. Sì, Mishima è un’anguilla. Uno pensa di averlo afferrato e poi, niente!, ti sguscia via e resti a mani vuote. Questo accade se vuoi inchiodare la sua opera ad una definizione che lo riduca ad un barattolo con appiccicata sopra un’etichetta. Ma quanto la sua arte sia stata capace di produrre nello spazio di venticinque anni non si può riassumere con qualche comoda formuletta d’occasione. L’enigma Mishima continua. Lo conferma un romanzo finora mai edito in Italia, uscito nelle nostre librerie il 31 marzo scorso.
Se volete qualcosa di saporito da leggere per le prossime settimane o per la torrida estate che verrà, pagine talmente avvincenti da farvi rinunciare all’ultima serie TV perché una trama così, che è meravigliosa sceneggiatura già pronta, se la contenderebbero a singolar tenzone Tim Burton e Quentin Tarantino, ebbene dovete assolutamente leggere Vita in vendita di Mishima.
A tradurlo in italiano per l’editore Feltrinelli è stata la mano sapiente ed esperta di Giorgio Amitrano, autorevole yamatologo e raffinato scrittore, che ci ha gentilmente concesso un’intervista pubblicata pochi giorni fa sempre sul “Pensiero Storico” (clicca qui). Come egli stesso ha ben riassunto nella pregevole Postfazione che ne correda la traduzione, Vita in vendita (Inochi urimasu) uscì originariamente a puntate tra il maggio e l’ottobre del 1968 sul settimanale «Shūkan Purebōi» (“Playboy Weekly”; ma non si tratta della versione giapponese della celebre rivista americana fondata da Hugh Hefner, anche se molto simile per contenuto). Nel dicembre di quello stesso anno il romanzo fu pubblicato in volume senza suscitare particolare attenzione. Riproposto in edizione tascabile trent’anni dopo, nel 1998, non ebbe miglior fortuna.
Poi, d’improvviso, nel 2015 cominciò a vendere migliaia di copie. Addirittura settantamila in due settimane. È così diventato, come ha scritto Amitrano, «un best-seller postumo che colse di sorpresa il mondo dell’editoria» (p. 242). Addirittura, «il libro mantenne la sua posizione tra i più venduti in Giappone per due anni consecutivi, tuttora viene continuamente ristampato ed è ormai avviato a diventare un long-seller» (ibid.).
Come mai questo successo arriso a circa cinquant’anni dalla sua prima edizione? Probabilmente perché il genere a cui appartiene, ossia un pastiche di spy-story, hard-boiled, pulp, romanzo erotico e d’avventura, lo rende – come giustamente nota Amitrano – «più adatto a una sensibilità postmoderna che a quella di fine anni sessanta», soprattutto in Giappone, mentre risulta maggiormente «in sintonia con il presente» (ibid.).
Su quale sia la trama non mi soffermo, così come su molti aspetti già ben tratteggiati da Amitrano nella Postfazione al romanzo. È un piacere, quello di scoprire e godersi il viaggio consentito dalla macchina narrativa messa in piedi da Mishima, un piacere intenso che desidero lasciare interamente al lettore. In ogni caso, garantisco che ne sarà spiazzato, a prescindere dal giudizio finale che ne ricaverà. Piaccia o no, la storia narrata ha un motore sfruttato fino in fondo e mandato a pieni giri.
Aggiungo solo alcune considerazioni in merito al fatto che dentro la miscela di generi letterari impiegati in questo romanzo, anomalo per molti aspetti rispetto al resto della sua produzione, insiste e persiste anche il rovello spirituale che ha segnato la vita di Mishima. Il rapporto con la morte è al centro, ossessivo come sempre, anche dietro la facciata di un divertissement quale Vita in vendita in gran parte è. Mishima prova a scherzare con i propri fantasmi e ci riesce pure. Si capisce quanto si sia divertito a scriverlo. Traspare dal ritmo brioso che rende scorrevole la lettura, davvero in tutto e per tutto simile ad un film dei più moderni, anzi postmoderni, per composizione delle scene, psicologie tratteggiate e tematiche affrontate. Ma veniamo al nocciolo filosofico del romanzo.
Anzitutto, a mio modesto avviso, una qualche eco kafkiana risuona nell’incipit del romanzo: «Quando Hanio si svegliò, intorno a lui tutto era talmente abbagliante che pensò di essere in paradiso» (p. 9). A me ricorda tantissimo il celeberrimo attacco della Metamorfosi: «Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto» (nella traduzione di Emilio Castellani). Ed è con una metamorfosi, una Verwandlung (titolo originale del racconto kafkiano), una trasformazione che, in effetti, prende avvio la storia raccontata da Mishima. Da un suicidio fallito nasce l’oltreuomo che funge da protagonista del romanzo. La vita può essere messa in vendita da uno che è totalmente e felicemente alienato. Spogliatosi di ogni minima, residuale forma di attaccamento alla vita, staccato l’io dal sé, da qualsivoglia amor proprio, Hanio ha compiuto un’autentica Umwertung aller Werte, la nietzschiana trasvalutazione di tutti i valori?
Non proprio. E qui nasce una delle tante curiosità che questo romanzo del 1968 suscita tanto nello studioso dell’opera di Mishima, quanto nel semplice suo lettore abituale. Dal sottosuolo svuotato dal grado zero del nichilismo al piano emerso di un’esistenza a temperatura media: questo il percorso che intravedo nelle avventure affrontate dal nostro eroe ironico di nome Hanio, protagonista che presenta persino tratti eroicomici, tre quarti di James Bond un quarto di Johnny English (per intendersi, la spassosa parodia che Rowan Atkinson, alias Mr. Bean, ha fatto del superagente segreto britannico). Ma il finale è tutto un programma, letteralmente. Non aggiungo altro e affido anch’esso al piacere del lettore. Dico solo, sibillino, che anche Hanio è un’anguilla nel senso simbolico della cultura nativa americana o dello sciamanesimo. I messaggi che questo specifico animale-totem trasmette sono: trasformazione, forza vitale e sessualità. Inoltre l’anguilla annuncia sempre un grande risveglio spirituale.
Ciò che, inoltre, nel romanzo traspare con indubbia evidenza è la denuncia severa di una società nipponica tristemente americanizzata, frivola e corrotta, frammentata e violenta. Sullo sfondo delle vicende del nostro eroe si erge rumorosa ma traballante la gioventù dei contestatori hippie in versione giapponese, ritratta da Mishima con un misto di sarcasmo e indulgenza. Nel complesso ne esce fuori una generazione allo sbando, rebel without a cause, per dirla con il titolo originale del film a noi noto come Gioventù bruciata. Cos’è d’altronde il nichilismo? «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al “perché?”. Che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi perdono ogni valore». Parola di Nietzsche (da un frammento postumo del 1887). Una Causa, specie se con l’iniziale maiuscola, è anche un fine, quella risposta che ogni domanda porta con sé. Ecco: Hanio non risponde più, eppure continua a farsi domande. Se infine è passivo e spento il nichilismo dei (più o meno) giovani che circondano il protagonista, attivo è il suo.
Nell’ottica di Mishima, rendersi disponibile alla morte, alla fine, all’annientamento, significa fare sul serio, assumersi fino in fondo, con estrema coerenza, la presa d’atto che tutto è vano e insensato. Niente ha scopo. Da un lato, è anche un sottrarsi al sostituto contemporaneo dei valori, quel grande generatore simbolico di surrogati valoriali che è il denaro. Totem della società capitalistica. «Se la mia vita viene valutata 200.000 o solo 30 yen per me non fa alcuna differenza. Il denaro fa girare il mondo solo finché uno è vivo» (p. 86), afferma Hanio. Non a caso. Esemplare ed eloquente il seguente brano, che merita riportare per quanto sia esteso:
Una notte insonne, che in lontananza rimbomba di voci, carica della gigantesca frustrazione della metropoli, dove dieci milioni di persone, nell’incontrarsi, al posto dei saluti si scambiano frasi come “Che noia, che noia, che terribile noia! Possibile che non ci sia niente di divertente?”. Una notte dove branchi di giovani sono trasportati dalla corrente come placton. La mancanza di significato della vita. L’estinzione delle passioni. La natura effimera di gioie e piaceri, simili al chewing gum, che una volta masticato perde il sapore e finisce sputato ai bordi della strada. Vi sono anche quelli che, pensando che il denaro risolva tutto, rubano i fondi pubblici. […] Metropoli piena di tentazioni e priva di soddisfazioni (pp. 184-185).
C’è persino un tratto sartriano, intendo il Sartre della Nausea, nello stato d’animo che pervade Hanio nei primi passi della sua metamorfosi. Lo avverto chiaramente quando leggo: «L’interno del vagone era luminoso come il paradiso e completamente vuoto. Tutti i sostegni bianchi di plastica vibravano all’unisono. Lui ne afferrò uno. Ma ebbe la sensazione che fosse stato il sostegno ad afferrare la sua mano» (p. 76). Le cose non solo mi sono totalmente esterne da essermi straniero il mondo intero, ma mi posseggono persino. Alienazione assoluta. Con un’aggiunta tutta nipponica, da buddhista zen, direi. Il distacco tra l’io e la mia circostanza risulta dalla percezione dell’impermanenza, o vacuità di tutte le cose, che, se ben compresa e coraggiosamente assunta, apre al risveglio e all’estinzione liberatrice. La pace come soppressione di quel divenire che è pena capitale a cui tutti i viventi sono condannati. Il giogo della necessità.
C’è una frase rivelatrice, anch’essa associata ai pensieri di Hanio, unico potenziale risvegliato in un mondo di sonnambuli, chi più sofferente e chi più gaudente, da cui traspaiono i grandi temi di ascendenza buddhista presenti nella tetralogia del Mare della fertilità, che Mishima aveva iniziato nel 1965 e il cui secondo capitolo, A briglia sciolta (Honba), stava redigendo negli stessi mesi in cui scriveva Vita in vendita:
Se il mondo avesse potuto acquistare un senso, sarebbe stato possibile morire senza alcun rimpianto. Se invece il mondo era irrimediabilmente privo di senso, morire non aveva alcuna importanza. Era pensabile che queste due posizioni trovassero un punto di incontro? In entrambi i casi, l’unica via che restava a Hanio era la morte (pp. 70-71).
Siamo sempre lì, ad insistere e persistere sul medesimo punto. La morte. Siamo agli antipodi dell’Europa, dell’Occidente cristiano. Vivere e morire, pari sono. Questo è il primo assunto. Morire in un mondo dotato di senso, perché ad esso da noi assegnato o perché ad esso da noi consegnato, non deve spaventare affatto. Noi lasciamo il testimone ad altri, i quali continueranno ad attribuire un senso, il proprio, al mondo, oppure avranno il compito, non meno arduo, di scoprirlo e comprenderlo dentro al mondo stesso, perché il significato è racchiuso in esso. Si tratta di disvelarlo, platonicamente. Il mondo vero dietro il mondo apparente. Morire in un mondo privo di senso, invece, nemmeno conta farci caso. È appunto un mero accidente. Questi fanno il secondo punto. In entrambi i casi, comunque sia, fa più soffrire vivere che morire. Questo pare suggerirci Mishima.
Eppure c’è qualcosa di occidentale in questo scrittore, pur così immerso nella tradizione giapponese. C’è come, in controluce, la speranza che nella morte, intesa appunto come una via, si dischiuda qualcosa che la vita suggerisce ma non concede, lascia intravedere con l’occhio della mente, senza che pupille e mani ne colgano alcuna corposità: la pienezza, l’appartenenza, la piena adesione tra l’io e il sé, tra l’individuo e il tutto. Leggete l’ultimo capoverso del romanzo, la frase che lo chiude e capirete cosa intendo. Tra panismo e panteismo. In tal senso è quanto mai azzeccata l’immagine di copertina scelta per le edizioni italiana e spagnola. Vivere per morire, o morire per vivere? O ancora, e meglio: questa alternativa è soltanto un (auto)inganno? Forse il segreto dell’esistenza è sbirciare imperturbabili da un telescopio portatile.